Si pone un po' come l'altra faccia della medaglia rispetto a La prima neve, il nuovo film di Andrea Segre, L'ordine delle cose. Se nel precedente lungometraggio infatti il regista veneto raccontava una storia di immigrazione dal punto di vista proprio di un migrante, questa volta, pur non mutando il tema, cambia la prospettiva: quel che viene mostrato è l'altro lato, quello di chi i movimenti li gestisce, li coordina e direziona, a (quasi) qualunque prezzo.
Corrado (Paolo Pierobon), alto funzionario del Ministero degli Interni italiano, è infatti specializzato nella gestione dei traffici umani irregolari. In onore al titolo, è un uomo con una vita perfettamente in ordine: sempre curato nell'aspetto, pacato nella gestione delle situazioni private e lavorative, assolutamente soddisfatto della propria carriera e della propria situazione coniugale e familiare. Una mente ordinata che si rispecchia in un mondo ordinato. Ecco dunque perché, oltre alla sua leggera compulsione nell'allineare i tappeti e le boccette di sabbia che porta a casa come trofei di viaggio, ha fatto dell'aggiustare e regolare il mondo la sua missione professionale. La Libia, con la sua complessa situazione, tra centri migranti alla stregua di prigioni e “signori” che si arricchiscono col traffico umano verso l'Europa, è la sua scacchiera. Il suo compito, tra risarcimenti in denaro e trovate d'astuzia (tema mai così attuale, alla luce delle accuse più o meno smentite di questi giorni), quello di garantire condizioni di spostamento e assistenza che corrispondano agli standard europei richiesti, ovvero, in altri termini, più dignitosi e rispettosi per la condizione umana. E Corrado è abile nel gestire vizi, desideri e necessità, nel volgere a suo favore le situazioni, nel non lasciarsi mai rubare le mosse dai potenti. Quel che però lo metterà in difficoltà, sarà una donna, Swada: una semplice, comune immigrata, col desiderio di raggiungere il marito in Finlandia. Quanto compromettersi per aiutarla a realizzare quel semplice sogno? Quanto incrinare lo status quo, e la regola del Ministero che prevede non ci si immischi mai con le storie personali dei migranti? La risposta, per Corrado, non potrà che essere rintracciata nell'ordine, quello che da sempre permea la sua vita e la sua natura d'uomo, poco importa se, in questo frangente, esso equivale a non agire, a trattare gli uomini alla stregua di numeri, a mettere a tacere la coscienza, ad abbandonare i giochi.
Ma L'ordine delle cose, che finge d'essere (come La prima neve) un documentario – con trovate piuttosto semplici come mostrare i microfoni della troupe di sfuggita – cade proprio nel suo non riuscire ad approfondire (come La prima neve) questa drammatica questione interiore al suo protagonista. Segre si rivela, insomma, ancora una volta più abile nel documentare, che nel dare profondità agli intrecci e ai personaggi che vi si muovono. Corrado resta bidimensionale, piatto, troppo poco stravolto da una scelta che – teoricamente – vale tutto se stesso: sta decidendo tra salvare una vita o fare la sola cosa che gli riesce per natura, ovvero ubbidire all'ordine delle cose e agire (o meglio non agire) per mantenerlo, sta scendendo a patti con se stesso e col mondo, eppure pare stia quasi più scegliendo tra la pizza o il pesce per cena. Corrado non vive il dolore di Swada e neppure il proprio, resta perciò impossibile per lo spettatore provare empatia (o disgusto) di fronte ai suoi dubbi e alle sue risoluzioni degli stessi.