Come si fa a non amare Robert Redford e Jane Fonda? Come non ammirare la naturalezza con cui questi due magnifici ottantenni, due fuoriclasse, mettono la propria storia e sensibilità al servizio dei loro personaggi, creando un’alchimia d’altri tempi?
In effetti Our Souls at Night di Ritesh Batra potrebbe terminare dopo una trentina di minuti. Quel magnifico prologo con Jane/Addie Moore che suona il campanello di Robert/Louis Waters, vicino di casa, vedovo come lei, per chiedergli spudoratamente di condividere il letto insieme (solo compagnia, senza sesso): la notte è lunga e fa paura, perché non provare a unire le loro solitudini? Quella messinscena minima (non minimalista) al servizio degli sguardi, i gesti, le parole imbarazzate che escono a fatica, i momenti di improvvisa verità. Quasi quasi vorremmo che il film fosse tutto così: un vialetto, l’ingresso di una casa, una camera da letto, e i due performer lasciati al centro del palcoscenico, ben illuminati perché risalti l’età e non ci si perda neanche un ammiccamento, a rievocare il dolore passato e a costruire un presente che ha il coraggio della felicità.
Ma c’è un romanzo da onorare (di Kent Haruf) e soprattutto ci sono 100 minuti di cinema da portare a casa. Ed è qui che divergono l’affettuosa riconoscenza dello spettatore complice, in vena di buoni sentimenti (quanto ne abbiamo bisogno!), e l’attitudine critica di chi amerebbe imbattersi in un’idea qualsiasi, un guizzo, un cambio di passo, un qualunque tentativo di mostrare e non solo dire le emozioni. Perché c’è una differenza tra la regia che fa un passo indietro per lasciare spazio alla realtà, la storia, i sentimenti, e quella che fa da tappezzeria, al servizio esclusivo degli attori protagonisti, più che degli spettatori.
Di cose ne succedono in questo film (in questo tentativo di cinema medio d’autore). Arrivano un figlio in stato confusionale e un nipotino (con cane) che facilita l’idillio. Arrivano le rivelazioni, mediate dal tempo e la memoria, le tragedie, i tradimenti. Non ci sarebbe romanzo, se non ci fosse un ostacolo da superare, una scelta da fare, per ritrovare alla fine un nuovo equilibrio, una diversa consapevolezza. Ma tutto scorre monocorde, con i due protagonisti che, a furia di cercarsi con gli occhi, di duettare affettuosamente, di parlare senza bisogno di parole, finiscono per lambire la maniera (ma la colpa è di chi dovrebbe dirigerli, oltre che ammirarli sul set).
A noi - che amiamo il cinema a 360°, l’arte e l’intrattenimento, il cinema d’autore e d’attori, il classico e l’iconoclasta, che guardiamo con favore alla moltiplicazione degli strumenti di diffusione e fruizione del cinema, che stiamo con Venezia quando spalanca le braccia alle piattaforme digitali e ai loro benemeriti sforzi produttivi – comincia a venire il dubbio che a quelli di Netflix piacciano un po’ troppo le operazioni a tavolino (anche per ovvi motivi di target e allargamento dell’audience): che sia la reunion di due divi mirabili (in questo caso), il fantasy per famiglie girato dal regista orientale in odore di culto (il modesto Okja) o il film impegnato manierista e didascalico (alla Beasts of No Nation). O forse il fraintendimento è causato dal problematico incontro tra il colosso e i festival del cinema. Chissà.