Suburbicon è basato su una sceneggiatura dei Coen con situazioni tipicamente da Coen, zeppo della classica ironia dei Coen e con personaggi da Coen interpretati da alcuni degli attori preferiti dei Coen. Solo che ha il difetto di non essere un film dei Coen.
George Clooney è ormai un regista solido che ha ampiamente dimostrato di poter dirigere una qualsiasi sceneggiatura (soprattutto se di ferro). Ma non è esattamente quello che si dice un autore. E in un film come questo una certa difformità fra materia prima e lavorazione si avverte subito.
Suburbicon è la classica cittadina di provincia nella quale, negli Usa dei primi anni Cinquanta le famiglie si traferivano per trovare il paradiso ove crescere i figli, invecchiare e morire in pace. Un paradiso fatto di villette a due piani con giardino e steccato bianco, auto familiari parcheggiate lungo il vialetto, postini e lattai sorridenti e il camion dei pompieri rosso fuoco che sfreccia per le strade. Un paradiso molto esclusivo però, al quale non è concesso accedere se, per esempio, sei povero e non te lo puoi permettere, se non sei sposato e non hai una famiglia da tirar su o – peggio – se il colore della tua pelle non è esattamente bianco. Ed è così che il giorno in cui la famiglia Meyers – madre, padre e figlio afroamericani – si trasferisce a Suburbicon, la vita del piccolo Nicky, il figlio dei vicini di casa, cambia completamente. E non tanto a causa delle violente proteste dei numerosissimi razzisti che abitano in città (cosa che invece cambia decisamente in peggio la vita dei Meyers), ma soprattutto perché il padre di Nicky (Matt Damon) in combutta con la cognata (Julianne Moore), decide di uccidere la moglie per mezzo di un piano talmente goffo e maldestro da finire per innescare una disastrosa serie di conseguenze.
Lo script dei Coen – che risale al ’99 e che ha tutta l’aria della sceneggiatura che (come molte altre) i due fratelli di Minneapolis lasciano lì in attesa di essere sistemata e ristudiata – descrive azione e personaggi, mentre l’ambientazione e il tema razziale sono stati aggiunti da Clooney e vengono da un (altro) soggetto tutto suo. Qui sta l'origine della difformità. Adattare una storia di genere che nelle mani dei Coen sarebbe diventata una cosa molto somigliante a Fargo o magari a L’uomo che non c’era, e trasformarla in un film dalle tinte fortemente politiche è infatti una scelta piuttosto azzardata che si ripercuote anche sulla messinscena.
C'è l'idea di dare un’interpretazione dissacrante degli anni Cinquanta che, anche se non nuovissima, funziona e la ricostruzione di Clooney del decennio d’oro della storia americana che è pressoché perfetta (soprattutto per il ricorso molto parco al cgi). Scenografie, costumi, scelte cromatiche e décor sono stupefacenti e lasciano il sospetto che ciò che piaccia di più a Clooney (o comunque ciò con cui si senta maggiormente a suo agio), sia proprio questa costruzione formale. Anche perché una rilettura iconoclasta del mito americano sarebbe potuta emergere già con le poche pennellate metaforiche incluse nella sceneggiatura, mentre premere l'acceleratore sulla questione razziale (relegando il tema a un subplot che non si incastra mai completamente con la trama del film) sembra tutt’altro che necessario. Il personaggio dell’investigatore delle assicurazioni interpretato da un Oscar Isaac che tanto ricorda l’Edward G. Robinson de La fiamma del peccato – per esempio – suggeriva di spingere la riflessione sulla disillusione dell’età dell’oro attraverso le tinte cupe del noir. O magari per mezzo del western e dell’immaginario hollywoodiano sotteso alla visione mitologica degli anni Cinquanta della Frontiera, che proprio il cinema, in quegli anni, veicolava. Ma Clooney si ferma un passo prima, non affonda e sembra non arrivare mai al nocciolo, restando intorno al proprio immaginario e senza davvero riuscire a trasformarlo in metafora. Forse i Coen c’avrebbero pensato. Chissà.