«Un amore devoto che per consumarsi ha bisogno dell'atto completo e irrevocabile della morte. Distruggendo qualcosa, lo si possiede per sempre». Con queste parole, Wilbur Smith, noto scrittore zambiano, descrive la caccia nel suo libro Il destino del leone, vicenda ambientata tra i vasti e incontaminati paesaggi africani. La caccia è un atto d'amore, dannoso, distruttivo, primordiale, crudo, ma pur sempre amore.
Uno sguardo simile sembra avere Natalia Garagiola nel suo primo lungometraggio Temporada de caza: uccidere un animale è ben più di un semplice gesto di difesa, di necessità o agonismo, e diventa piuttosto un fatto di vicinanza, un rito di passaggio. Nahuel (Lautaro Bettoni), il giovane cacciatore inesperto protagonista del film, ama la bestia a cui spara: la ammira, la compatisce, piange per lei. Eppure, al tempo stesso, è attraverso la sua morte che diventa adulto. Non perché sia il primo decesso in cui egli si imbatte – ha infatti già visto portarsi via la madre, gravemente malata – ma perché distruggere con le proprie mani è «possedere per sempre»; è entrare in una dimensione nuova, inedita, fatta da un lato di adrenalina e istinto, e dall'altro di confronto alla pari con il proprio adulto di riferimento, il padre. Uccidere è trovare una connessione con il genitore biologico, fino a quel momento distante e anafettivo. La morte della bestia è necessaria, per l'avviarsi di un altro, ulteriore atto d'amore: il confronto, l'avvicinamento, l'abbraccio.
Arrivato nel piccolo villaggio della Patagonia in cui il padre, Ernesto (Germàn Palacios) si è da lungo tempo creato una nuova vita e una nuova famiglia, Nahuel è un pesce fuor d'acqua. Unico figlio moro in una casa di bimbi biondissimi, è anche visivamente estraneo all'ambiente in cui viene gettato. Ad aggravare la situazione, gioca un ruolo fondamentale la rabbia che l'adolescente si porta dentro per la morte della madre. Un rancore che sfocia in atti violenti e arroganti e in serate dall'alto tasso alcolico.
Il solo punto di contatto con l'uomo che lo ha abbandonato (e il cui ruolo nel frattempo è stato occupato da un altro uomo, il marito della madre) è dunque la caccia. Tutto non può che ruotare attorno a essa, nei falò di fronte ai quali, dopo le battute, si svelano sentimenti e risentimenti. È dopo l'uccisione che ci si stringe per la prima volta, ci si consola, ci si incontra allo stesso livello. È con la promessa di riusare insieme il fucile, infine, che ci si saluta e si gettano le basi per un incontro futuro.
Pur con un impianto narrativo fin troppo previdibile, Temporada de caza racconta in sordina, con distanza e una regia misurata, di grande controllo, il dolore della perdita, il rancore di un rapporto mancato, le difficoltà dello sradicamento, il difficile instaurarsi di un affetto con chi è genitore solo per consanguineità.