William Friedkin e Satana sin dai tempi del loro primo incontro – nei primi anni Settanta – non hanno mai smesso di piacersi e, dato il grande risultato prodotto della loro collaborazione nemmeno, a quanto pare, di frequentarsi. Esattamente 44 anni dopo L’esorcista (1973), Friedkin (ottantadue anni compiuti l’altro ieri) è tornato sul luogo del delitto, ha affrontato (esorcizzato?) i suoi demoni e con un documentario low budget, girato un po’ come un divertissement e un po’ come un filmino delle vacanze, è riuscito a creare un piccolo gioiello. The Devil and Father Amorth non è soltanto – come può sembrare a prima vista – un film su padre Gabriele Amorth, per trent’anni esorcista della diocesi di Roma, ma anche un tentativo del regista di fare i conti con un passato (e un’opera cinematografica) che l’ha ingabbiato e per certi versi perseguitato per decenni.
Autorizzato – in via straordinaria – a riprendere un esorcismo praticato da Amorth su una giovane donna della provincia di Frosinone, Friedkin costruisce un racconto attraverso cui riflette tanto sulla natura e il senso dell’esorcismo quanto sulla seduzione che il maligno ha avuto su di lui a cominciare dal periodo in cui iniziò la lavorazione de L’esorcista. Pur se in maniera parziale, ironica e certamente un poco ingenua, The Devil and Father Amorth è anche una sorta di meditazione spirituale mediata dall’esperienza cinematografica. Del resto il film che ha reso celebre Friedkin e al quale (suo malgrado) il suo nome resta indissolubilmente legato, viene utilizzato qui come un metatesto che è il vero dispositivo a cui tutte le altre storie girano intorno e sul quale si innestano. L’esorcista, che Friedkin stesso in mondo un po’ sornione, dice essere il film preferito di padre Amorth, è diventato nel corso degli anni molto più grande del suo regista e catalizzatore non solo di un culto incontrollabilde ma anche di una nutrita serie di narrazioni, rielaborazioni e rivisitazioni. E ha assorbito e prodotto tanta di quella cultura da essere stato in grado di mischiare realtà e finzione come pochi altri film nella storia del cinema. Per questo, ad esempio, la celebre scala di Georgetown sulla quale è stata filmata la morte di padre Karras nel finale del film, è oggi comunemente detta “la scalinata dell’Esorcista”. E sempre per questo Friedkin inizia il suo film partendo proprio dai luoghi (oltre la scalinata anche la chiesa, il campus e la casa che si vedono nel film), proseguendo il suo viaggio verso l’Italia e la Roma di padre Amorth, collegando idealmente – colmando la distanza geografica – presente e passato anche a livello temporale.
Assistere e documentare un esorcismo «per la prima volta nella vita» come dice il regista, quarant’anni dopo aver creato l’opera che ha portato la pratica dell’esorcismo all’attenzione del mondo, significa in fondo continuare a raccontare una storia, quella stessa storia, ma da una prospettiva personale. E infatti nonostante alcune divagazioni superflue, la parzialità nell’affrontare certi argomenti – le testimonianze dei posseduti, i medici, il prelato americano – e una ripresa dell’esorcismo che annulla completamente ogni afflato soprannaturale, rendendo tutto molto più prosaico e molto poco cinematografico, il film (che non documenta un bel niente) racconta molto bene una storia. La storia di Friedkin che, proprio come in un film dell’orrore, cerca di sconfiggere un mostro. Il demone che si è creato e che ha infestato la sua vita per 44 anni. Ma, proprio come in un film dell’orrore, sa che il mostro non sarà mai sconfitto e continuerà a presentarsi ancora e ancora. E che come Cristina – la ragazza che Amorth tenta di guarire dalla possessione – non riuscirà mai a esorcizzare del tutto.