Non è necessario guardare il telegiornale per rendersi conto che il conflitto, nelle sue varie declinazioni, è una condizione fondamentale della storia e del nostro presente; basterebbe osservare con maggiore attenzione il quotidiano. Piccole guerre, vendette, odi e recriminazioni si celano nelle pieghe della vita di tutti i giorni, magari nascoste dietro le mura e i giardini ordinati e tutti uguali delle villette nei quartieri residenziali. Si può partire da questo assunto, un po’ banale, per spiegare come Under the Tree dell’islandese Hafsteinn Gunnar Sigurðsson, presentato a Orizzonti, non sia un semplice e gratuito sfoggio di black humour e di cinismo. Ma come un apologo che – sulla base proprio del cinismo – raggiunge una portata più vasta, con situazioni estremizzate ma tuttavia verosimili.
Nella periferia residenziale di Reykjavík un enorme albero non potato diventa la scintilla che scatena lo scontro tra due coppie vicine di casa. Dalle semplici discussioni, dalla falsa cortesia e dalle battutine dette tra i denti si passa ben presto ai dispetti più pesanti, alle provocazioni più gravi e all’odio più profondo. Quello che sembra un piccolo scontro diventa rivalità e la rivalità ossessione, trasportando il quartetto in una spirale di violenza sempre più estrema. Il figlio di una delle due famiglie – testimone di questo gioco al massacro – è a sua volta vittima della rabbia e della voglia di vendetta della moglie, la quale lo ha cacciato di casa minacciando il divorzio. E sono proprio i figli, rimpianti, desiderati o sostituiti da animali domestici o da alberi “ricordo” della loro presenza, l’elemento alla base delle frustrazioni e dell’infelicità dei protagonisti; frustrazioni che trovano sfogo proprio nel climax di ripicche e di violenza.
Sigurðsson descrive questo spaccato di ordinaria cattiveria con un black humour laconico e con un cinismo quasi palpabile e a tratti esasperato, tipico di molte commedie scandinave nelle quali si ride a denti stretti e in maniera paradossale. Il senso di straniamento, di angoscia e di paradosso viene accentuato da una macchina da presa quasi sempre immobile e da una fotografia dominata dai toni grigi e allo stesso tempo assolutamente nitidi, a tratti quasi luminosi. Mentre le inquadrature sempre più ravvicinate dell’albero oggetto del contendere diventano in qualche modo – come fossero dettagli d’atmosfera di un film horror – testimoni di una situazione sempre più irreversibile e inquietante.
Se Under the Tree non sfocia nel sadismo nei confronti dei personaggi, nella misantropia più pura e nel cinismo di maniera è perché la rilevanza data alla tematica dei figli assenti e della genitorialità inseguita o rimpianta – già fulcro di Either Way, film d’esordio del regista e vincitore del Torino Film Festival nel 2011 –fa sì che non manchi un sottofondo di compassione e di pietas. Come nel cinema di Todd Solondz, modello diverso ma non così lontano, l’estremizzazione di comportamenti, infelicità e disagi diventa testimonianza di condizioni esistenziali (e sociali) reali e diffuse. In questo modo Under the Tree varca i confini del black humour fine a se stesso e diventa un potente e sardonico, ma non semplicistico né manicheo, apologo sui conflitti in agguato nella vita di tutti i giorni e pronti a scatenarsi per un nonnulla.
Curioso è infine il piccolo legame con un altro film visto in questi primi giorni di festival: The Insult del libanese Ziad Doueiri, opera diversissima e quasi opposta, ma nella quale un evento piccolo, quotidiano e banale scatena una spirale di odio e rivendicazioni enormi e ataviche.