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Una faccia come tante altre”: così la critica Hanna Krall definisce Jerzy Stuhr mentre intervista Krzysztof Kieslowski su Cineamatore  (1979,  Polityka n. 4).

Difficile non essere d'accordo, senonché questa sua “funzionalità” somatica lo ha reso utilissimo - anzi: indispensabile - in tante opere realistico-metafisiche dell'autore polacco. A partire da La tranquillità (1976, con Stuhr coautore dei dialoghi), per proseguire con La cicatrice  (1976), Cineamatore (1979), Destino cieco (1981, non accreditato), Decalogo 10 (1989), Tre colori: film bianco (1994). Personaggi, i suoi, difficilmente inquadrabili, sempre al confine tra il tenero e il disdicevole, ora caratterialmente deboli ora sottilmente cocciuti, così comuni da diventare rappresentativi, moralmente e ideologicamente.

Insomma, come già lo si può intuire, un re dei mezzi toni e Bergamo Film Meeting ci porge l'occasione, con una articolata personale (21 titoli) di sue interpretazioni e regie, di cogliere (quasi) tutte le sfumature del suo straordinario mestiere.

Parlando di Jerzy Stuhr (18 aprile 1947, Cracovia) ci riferiamo a un versatile uomo di spettacolo, di vastissima esperienza teatrale (come attore affrontò Shakespeare, Cechov, Kafka, Durrenmatt, diretto da Wajda, Kieslowski, Giovanni Pampiglione, come regista Gombrowicz, Suskind, Molière, Shakespeare): anzi, dal 1980, da noi, operò come Ambasciatore del teatro polacco in Italia e in Europa. Non si tratta di un'esagerazione meramente onorifica, perché in quegli anni difficili per la situazione del suo paese, si adoperò indefessamente per far(ci) conoscere la cultura e la scena teatrale e cinematografica nazionale, con spettacoli e allestimenti in Italia, “importando” colleghi di livello e intessendo relazioni con colleghi italiani (tra cui citiamo Nanni Moretti e non per caso, perché lo vedremo anni dopo in Il caimano, 2006, e poi in Habemus Papam, 2011).

A Bergamo lo seguiremo nella sua carriera, pimpante, snello e baffuto e poi via via più corpulento, calvo, faccioso, ma sempre capace di ispessire i caratteri dei suoi personaggi con sottolineature di spontaneo naturalismo che solo il talento di un mestiere studiato e minuziosamente praticato può dare. Un  “understatement” che fa passare quasi in secondo piano i suoi virtuosismi, come il (gratuito ma significativo) singhiozzo nervoso di Filip Mosz, il Cineamatore che scivola nella sua passione scoperta per caso, o le imprevedibili doti di cantante estroverso in Wodzirej (1978) di Feliks Falk o ancora l'impeccabilità stizzita del suo viscido viceconsole in Persona non grata di Zanussi (2005), un second role di puro godimento. Stuhr è uno di quegli attori che non stonano mai, di resa sicura, persino quando sono impegnati in curiose commedie di fantascienza sociologica come in Sexmisja (1984: una sorta di “Dormiglione” alla polacca che scaraventa due cavie in un futuro  privo di maschi) di Juliusz Machulski, regista specializzato in satiriche allegorie politiche (si veda anche Kingsajz, 1988), con cui ha molto e proficuamente lavorato.

Dal 1995 si è poi messo dietro la macchina da presa, senza discostarsi molto da quel “dramma con humour” del suo amico dall' “idem sentire” Kieslowski. Tra i suoi lungometraggi, Storie d'amore (1997) si aggiudica il Premio Fipresci a Venezia (seguito dal Nastro d'Argento europeo e poi dal premio Robert Bresson del 2005), dove ritornerà due anni dopo con Sette giorni della vita di un uomo. Del 2000 è Duze Zwierze (Il Grande Animale), da una sceneggiatura dell'autore del Decalogo. Davvero una carriera lunga ed eccezionale per un uomo “dalla faccia come le altre”.