“Il colonialismo non è una macchina pensante, non è un corpo dotato di ragione. È violenza allo stato puro e non può piegarsi se non davanti a una violenza ancora maggiore”.
Sono queste le parole con cui inizia Concerning Violence, il documentario che Göran Hugo Olsson ha dedicato alla figura di Franz Fanon, e in particolare a quelle durissime parole di denuncia del colonialismo che sono contenute nel suo libro-manifesto I dannati della terra.
Si tratta di uno dei molti documentari a “tema politico” interessanti che stanno passando nelle sezioni Forum e Panorama di questa edizione della Berlinale e che stanno parzialmente riscattando un deludentissimo concorso.
Franz Fanon nacque in Martinica nel 1925 in una famiglia della borghesia nera e allo scoppio della seconda guerra mondiale andò a combattere nelle forze della Francia libera contro il governo collaborazionista di Vichy. Poi studiò in Francia, diventò medico psichiatra e andò a lavorare in un ospedale in Algeria dove entrò in contatto con i gruppi rivoluzionari anti-coloniali locali.
Dal 1957, anno in cui venne espulso dall’Algeria per attività clandestina, al 1961, anno in cui morì a soli 36 anni, Fanon divenne uno dei più grandi punti di riferimento per i movimenti anti-coloniali africani. La sua attività politica in Tunisia, Egitto, Ghana, Mali, Angola e Congo fu un stimolo fondamentale per tutte le lotte di liberazioni di quei paesi.
Göran Hugo Olsson tuttavia non ci racconta la vita di Franz Fanon secondo il modello del biopic documentario tradizionale. Decide semplicemente di usare le parole contenute nel primo e nell’ultimo capitolo de I dannati della terra e dargli carne tramite delle immagini di repertorio: dei 16mm girati da giornalisti svedesi inviati in Africa negli anni Settanta e ritrovati da Olsson negli archivi della televisione svedese.
Il film però non si limita all’illustrazione, perché decide di mettere letteralmente sopra all’immagine le parole di Fanon, che a volte coprono gran parte dello schermo (con un lavoro di graphic design estremamente efficace) e che vengono nel frattempo lette da quella stupenda voce, lievemente rauca ma ad un tempo calda e dura, di Lauryn Hill, una delle più importanti e politicizzate voci dell’hip-hop americano degli ultimi trent’anni. L’effetto potrebbe sembrare a prima vista quasi simile ad un karaoke, se non che in questo dispositivo, questo modo di appropriazione delle parole svela ancora di più come di fronte a un problema politico come il colonialismo non si può essere spettatori neutrali, ma prendere posizione. Quello parole o saranno le nostre parole, o semplicemente non saranno.
Olsson fa un’operazione con i materiali d’archivio che potremmo definire il “rovescio” di quello che spesso viene fatto nei film di “found footage”, come ad esempio nelle opere di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi dove si lavora sull’inconscio e sui non-detti dell’immagine. Il regista svedese decide invece di ridurre l’immagine, di diminuirne il visibile e piegarlo a una pratica politica “affermazionista” come potrebbe essere quella di un volantino.
Il risultato è davvero stupefacente, perché le interviste che vediamo passare sullo schermo con i membri del FRELIMO (Fronte di Liberazione del Mozambico) o del MPLA (Movimento Popolare di Liberazione dell'Angola), per non parlare delle bellissime parole di Thomas Sankara o Amílcar Cabral, acquisiscono una forza e un’urgenza che libera il colonizzato dal ruolo di vittima, per elevarlo ad artefice della propria storia. Non c’è alcuna compassione verso le vittime, solo una grande voglia di rivalsa.
In realtà prima ancora che le parole di Fanon facciano il loro ingresso nel film, vi è una sorta di prefazione: un’intervista di una decina di minuti che Olsson ha fatto alla filosofia indiana Gayatri Chakravorty Spivak, una delle più grandi intellettuali contemporanee. Spivak è un’esponente di primo piano di quel pensiero postcoloniale che negli ultimi tre decenni ha riflettuto sulla persistenza delle relazioni di subalternità coloniale anche in società che ideologicamente affermano invece che quell’esperienza è ormai conclusa (una su tutte, l’Italia).
La persistente subalternità economica di gran parte degli ex-paesi colonizzati nonché le tracce dei traumi di alcune delle peggiori violenze del XX secolo mostrano che forse Concerning Violence non è soltanto un bel film un fatto di storia del Novecento, ma è anche un’opera estremamente utile per il nostro presente.