Questo è il Festival di Berlino quando ti accoglie: un sipario ancora chiuso, uno schermo nascosto. Un'immagine che per ora si nega.
Poi entri in sala. Prendi posto e “magicamente” la comunità si crea.
Non sei solo. Non sei più solo. Qualunque cosa accada.
Tutto ciò che si vedrà su quello schermo, dal momento in cui si aprirà il sipario, riguarderà te come individuo, ma anche la comunità di cui hai cominciato a far parte nel momento stesso in cui hai preso posto al cinema.
In questo cinema.
“Non pensare, guarda!”, come sosteneva Wittgenstein, diventa allora l'invito a uno sguardo applicato con intelligenza e dedizione. Tutta l'intelligenza e tutta la dedizione di cui siamo capaci. Che l'immagine merita (quando la merita, e mi viene in mente Faust. Eine deutsche volkssage del 1926 di W.F. Murnau, qui appena proiettato in Retrospektive nella sua stupefacente edizione restaurata).
A guidarti poi in questa sorta di discesa agli inferi (o salita all'empireo) compaiono magicamente sul palcoscenico questi esseri efemerici, non presentatori, non critici, molto differenti gli uni dagli altri, ma tutti accomunati dalla stessa brevissima vita (un giorno negli insetti, pochi istanti nei loro umani referenti).
Le efèmere maschio, dopo 11 o 12 mesi di vita come larva, una volta diventati insetti adulti, hanno soltanto un giorno per trovare la loro compagna, accoppiarsi e poi morire e, forse proprio per questo, per meglio trovare il proprio partner in così poco tempo, sono dotati di occhi enormi.
E anche noi abbiamo occhi enormi. Che non ci stanchiamo mai di riempire.
Che desiderano continuamente essere riempiti.
Eppure proprio qui si compie la più assurda delle contraddizioni: perché se Jeff Goldblum (con il cast di Grand Budapest Hotel) sta davvero arrivando in questa piazza e scenderà proprio da quell'Audi nera (che sta parcheggiando, ora) la nostra attenzione continua ad essere pericolosamente, assurdamente calamitata dall'enorme schermo video, che ce ne offre un'immagine mediata?
Forse perché nel nostro immaginario ormai completamente succube dell'artificialità non c'è più davvero posto per “il reale”.
Tutto dev'essere accuratamente studiato, misurato, organizzato, leccato, così come ci hanno insegnato. Oppure semplicemente non è. Non esiste.
Banalmente non siamo (più) attrezzati per coglierlo.
Ma ecco la soluzione. Ecco la salvezza.
Per fortuna continuiamo ad essere umani: la via d'uscita ce la offre la nostra stessa natura.
Dopo milioni di immagini artificiali concepite da altri, ci rifugiamo nel mondo che ci appartiene (cui apparteniamo?) più in profondità. Quello del sonno. Quello del sogno.
E che cosa sognare a Berlino se non ideali, agognati, mitologici “schermi vuoti”?