Le statue di Lenin, macerie pesanti e tragiche, sono ancora lì, spezzate e sconsacrate. Anche i palazzi in costruzione, dispersi ovunque nello spazio infinito dell'infinita pianura russa, sono ancora lì, li si vede in lontananza, o confusi nella foschia del cielo grigio, scheletri di ferro e cemento, e sono già macerie pure loro, per quanto ancora da finire o mai finiti, promesse di un futuro che non è mai arrivato.
Quel futuro cominciato nel 1991, dopo la fine del comunismo, e mai diventato storia per la Russia contemporanea, solo un presente interminabile e perennemente agonizzante. E lo spazio, anche lo spazio, in questa Terra del dopo-tutto raccontata da Aleksei German jr in Pod elektricheskimi oblakami (Under Electric Clouds, in concorso) ha acquisito pure lui la stessa indeterminatezza del tempo, è aperto, non ha confini né limiti, è pianura a perdita d'occhio, è un cantiere in costruzione che non verrà mai terminato, una casa senza pareti, un appartamento vuoto e abbandonato, un museo che non si vede, una struttura in cemento pronta a sorreggere nient'altro che se stessa.
E così, allo stesso modo, il racconto procede come il tempo e lo spazio, fluido, ininterrotto, diviso in sette capitoli ma senza vere e proprie pause, con personaggi che entrano ed escono dalla scena, diversi livelli anche temporali che slittano l'uno sull'altro e parole, figure, immagini che stanno insieme ma valgono unicamente per se stesse. Vengono in mente le "inquadrature celibi" di Ferreri, la strutture dissonanti, stranianti e metaforiche di un cinema d'autore vecchia maniera che German richiama fin dai tempi di Garpastum, che a Venezia, nel 2005, sembrava a tutti gli effetti un film di Jancsó.
Ma nell'insieme degli episodi ambientati in siti edili dove imprenditori neocapitalisti speculano senza pietà, dove giovani ereditieri non sanno cosa farsene dei soldi dei loro padri, dove immigrati kirghizi vengono sfruttati e abbandonati a loro stessi, dove si scende indietro nel tempo come in un sogno, dove i ricordi dell'assalto alla Casa Bianca del 1991 sono solo brandelli, nemmeno più storia, in questo quadro placido e multiforme a contare è l'impressione complessiva, è la vicinanza di ogni componente, di ogni immagine singola, e il rapporto imprevedibile che crea con tutto il resto.
Quello che German cerca non è tanto una direzione mancante alla Russia contemporanea, il suo film non è politico ed esplicito come Leviathan di Zvyagintsev. Under Eletctric Clouds è un film sulla relazione perduta fra l'uomo e lo spazio-tempo (e non senza ironia: «Sono un architetto - dice a un certo punto l'autore di un super grattacielo - metto vasche da bagno e rubinetti nello spazio e nel tempo»...); è un film di superfici, di trasparenze, di vuoti abissali che non si sa come riempire; un film sull'architettura contemporanea e la memoria dello spazio; un film di scontri fra elementi, fra parole che valgono quasi unicamente come suono, mai come discorso (e infatti le voci degli attori sono doppiate, per dare un effetto di distanza emotiva), fra piani che si accavallano, con la macchina da presa che si muove in infiniti carrelli laterali, come se fosse di passaggio, come se lo spazio si muovesse da sé e il cinema lo rincorresse. Anche l'eredità cultura della Russia finisce per essere un oggetto come gli altri: Lenin, Stalin, Kamenev, Brodsky, Solženicyn sono citati insieme al cane di Mickey Rourke, i Metallica, le mitologie degli elfi e i giochi di ruolo, in un quadro che non è caotico ma semplicemente vasto, impossibile da abbracciare.
German cita Cezanne in apertura, una frase che afferma più o meno come in un disegno a contare non sia la relazione fra gli elementi, ma lo scontro fra il bianco e il nero. E in effetti il suo magnifico, ostico, svagato film usa il montaggio come, idealmente, Cezanne il pennello, ogni inquadratura è materia isolata dal resto ma capace di costruire un insieme fluido e paradossalmente geometrico: una spiritualità che nasce dalla concretezza del mondo.
Nella vastità del cielo russo, nell'anno 2017, centenario della Rivoluzione, le pubblicità sono dunque proiettate sulle nuvole, i grattacieli sono vuoti, le spiagge deserte, il passato a un solo stacco di montaggio di distanza, ma questo è il futuro che ci tocca, il futuro che tutti aspettiamo, mentre in realtà lo stiamo già vivendo da un pezzo.
E come dice Vincent Dieutre, riprendendo una frase di Pasolini, nel suo bel Viaggio nella dopo-storia, presentato al Forum, il problema con il nostro tempo non è tanto la fine della storia, ma la difficoltà nel mantenere una continuità storica con quello che ci ha preceduto e quello che ci seguirà.