Ecco. Col passare dei giorni i segnali si fanno più precisi. La platea del Berlinale Palast si anima di storie, forme e contenuti, e la domanda sorge spontanea: che questa 65ª edizione del festival sia un evidente, palese omaggio al genere femminile?
Non ci siamo ancora ripresi dalla Queen of the desert/Gertrude Bell, herzoghiana melodrammatica eroina divisa tra la tensione del viaggiare e quella della mediazione politica per la corona britanica, la scrittura e la cartografia, l’esplorazione dei luoghi e la ricerca di se stessa quanto dell’amore, che ci abbaglia la semplice poesia del quotidiano della protagonista di Ixcanul di Jayro Bustamante.
Maria è una giovane india del Guatemala, parla il kaqchikel, una lingua maya, e sogna gli Stati Uniti, che si promettono e negano al tempo stesso dietro al “vulcano” (questo il significato del titolo) sulle cui pendici vive la sua famiglia coltivando e raccogliendo caffè.
Poi, sempre in concorso, arriva il Journal d’une femme de chambre di Benoit Jacquot dove in una Francia di inizio '900 la bella e impudente Célestine, partita dalla ricca e disinvolta Parigi, approda in Normandia, per servire in una famiglia difficile, retta con pugno di ferro dalla fredda, egoista e tirannica proprietaria e dal suo perverso quanto ignavo marito. Per non finire come la cuoca, da quest’ultimo sedotta e messa incinta, Célestine preferisce concedersi al fascino di Joseph, il tuttofare della casa, un misterioso, intrigante personaggio, che probabilmente la coinvolgerà in situazioni ancora più sfortunate di quelle che la nostra eroina sta vivendo.
Dopo Jean Renoir nel 1946 e Luis Buñuel nel 1964, tocca a Benoit Jacquot confrontarsi col romanzo omonimo di Octave Mirbeau. E anche qui l’occhio sardonico sulla borghesia non risparmia critiche al senso di ineluttabile sconfitta che sembra albergare in questa sensuale Célestine, davvero ben interpretata dalla giovane anche se già affermata Léa Seydoux.
Ma quanto possono il disorientamento, l’apparente mancanza di potere, persino la più autentica ingenuità, se condite da una certa dose di sensualità? Ce lo stiamo ancora chiedendo all’uscita dalla sala che ci risponde il successivo film in concorso, Victoria di Sebastian Schipper, il quale in un unico lungo piano sequenza, di ben 140’, ci racconta in tempo (e spazio) reali l’avventura di una giovane bartender spagnola, in trasferta a Berlino, che viene coinvolta in una rapina, e nei suoi sanguinosi esiti, da una surreale compagnia di simpatiche e apparentemente inoffensive piccole canaglie.
Il plot, scritto dal regista stesso, è in-credibilmente credibile, l’azione in continuo crescendo, la tensione, soprattutto in interni - sempre più claustrofobici, fino all’auto in panne della rapina - diventa palpabile. E se è ottima la scelta del direttore della fotografia, il norvegese Sturla Brandth Grøvlen, con la sua macchina a mano efficacemente sospesa tra realismo e metafora, è l’interpretazione di Sonne da parte di Frederick Lau, il Tim che si spara in testa in L’onda (film di Denis Gansel del 2008), a lasciare senza parole.
Chiudiamo infine con l’ultima donna, la Kate Mercer/Charlotte Rampling protagonista di 45 years, sempre in concorso e diretto da Andrew Haigh, regista alla sua seconda prova, ma già noto come assistant editor di blockbuster come Il Gladiatore o Black Hawk Down.
Qui il tono non potrebbe essere più differente. Manca solo una settimana al 45°anniversario di Kate Mercer. I dettagli della festa stanno prendendo corpo e le passeggiate col cane non potrebbero essere più tranquille nella campagna intorno alla casa, quando una lettera arriva ad annunciare al marito, interpretato con la consueta misura da Tom Courtenay, che i ghiacciai delle Alpi svizzere hanno appena restituito il corpo del suo primo amore, congelato e preservato per quasi cinquant’anni. Ecco la crepa. Il pretesto per far implodere tutto.
Il caso e le nostre scelte sembrano collidere senza scampo. Che cosa sarebbe successo se quel giorno Geoff non fosse andato a passeggiare in montagna? E se lei non fosse caduta? Gelosie borghesi e pragmatismo venato di ansia donano un’atmosfera elegiaca a questo sospeso esempio di “cinema della coppia”. Da ricordare il finale aperto e in freezed con il braccio alzato della Rampling durante la festa: forse un moderno urlo che richiama il finale di Teorema con Massimo Girotti sull’Etna? Certamente non un caso in un film in cui il macguffin è proprio un corpo, che non si vede mai e intrappolato nel ghiaccio.
Ed è proprio un ghiaccio appena sciolto, come quello dell’alba sul canale del Bundestag, che oltrepasso ogni mattina in bici per “recarmi al lavoro”.
Un lavoro atipico ammettiamolo, ma tutto sommato piuttosto affascinante.