Oltre l'idea di narrazione, di racconto, forse di cinema stesso, e non in un'accezione per forza di cose positiva, Malick ha ormai intrapreso un percorso dal quale difficilmente tornerà indietro. E del quale ormai sappiamo tutto: la macchina da presa fluttuante, gli attori che passeggiano nello spazio, che si voltano e si guardano, la voce over che sussurra invocazioni e pensieri, la frammentazione totale dell'unità di spazio e di tempo, la pedanteria di uno sguardo estatico, lezioso, purtroppo patinato.
In Knight of Cups c'è tutto questo, se possibile spinto in maniera ancora più insistita verso la dissoluzione e la dispersione, come infiniti frammenti di storie, di immagini, di corpi centrifugati ed espulsi. Si può accettare o si può tranquillamente mollare al secondo stacco di montaggio, non è nemmeno più il caso di farselo piacere o meno: Malick rivendica il proprio potere creativo, crede fermamente nel potere delle immagini, espande, ripete, moltiplica in un modo che ormai appartiene solo a lui e che è un passo indietro, per dire, rispetto alla concentrazione di un Anderson o di un Mann, che sanno invece racchiudere il senso dei loro film in un campo fisso o in un campo-controcampo. Malick è un demiurgo, le immagini le mescola come argilla, nel suo estremo controllo sembra quasi non averne consapevolezza.
In Knight of Cups, però, tutto questo assume un senso più chiaro e terreno, più umano anche, e meno metafisico, rispetto a To the Wonder e forse anche The Tree of Life. È insopportabile, certo, Knight of Cups, ma lo è in maniera inevitabile, grave, come un film condannato a una drammatica coazione a ripetere: ripetere immagini, che tornano da altri film (la Valle della morte, le spiagge, le lenzuola, le tende); ripetere gesti e relazioni, con il protagonista, un attore di Hollywood interpretato da Christian Bale, che vive diverse relazioni ogni volta alla stessa maniera, tra amore, felicità, sfioramenti, spostamenti e abbandoni. E soprattutto, ripetere continuamente questo passaggio sulla terra che è una condanna, o meglio ancora un dono incomprensibile vissuto come un tormento.
Questa volta non c'è nemmeno Dio a sorreggere il viandante, il pellegrino anzi, come suggerito dalla citazione dal Pilgrim's Progress di Bunyan che apre il film: «As I walk’d through the wilderness of this world, I lighted on a certain place where was a Den, and I laid me down in that place to sleep; and as I slept, I dreamed a Dream...». E la wilderness of this world, la terra selvaggia, in Knight of Cups è Los Angeles, stranamente possente e concreta, spazio non solamente terreno, ma terra civilizzata, costruita, soffocata, filmata con uno sguardo che non è più estatico ma è come inghiottito, travolto dalla totalità di cemento e colore (e non a caso a un certo punto c'è pure Las Vegas).
Un film di Malick non è mai stato così materico, così sordo nel rappresentare la geografia fisica di una terra. Paradossalmente, Knight of Cups sembra essere quel film su Los Angeles e la luce americana che non vuole e non può più essere Inherent Vice: l'attraversamento dei suoi boulevard e delle sue spiagge, dei suoi fiumi artificiali e delle sue ville miliardarie, in una luce bianca e anestetizzante, rimanda inevitabilmente a Pynchon, alla sua descrizione spaventosa della città, «a public and anonymous confession of the deadly sin of greed», una confessione pubblica e anonima di un peccato mortale di avidità.
Malick non ne fa certo un discorso sul mito americano, ne filma la geografia come un paese alieno, visto per la prima volta; i suoi spazi non sono nemmeno lontanamente i campi della repubblica di Gatsby: ma mai come in questo caso il suo solito ragionamento filosofico sul vivere e cercare la felicità su questa terra è unito all'idea di ingabbiamento, di costrizione in un luogo e in un tempo precisi, in un luogo e in un tempo americani, fra ricchezza e bulimia di immagini, di occhi, di scatti, di messe in posa.
Christian Bale è come una figurina fissa che si muove davanti all'obiettivo, è un mascherino che fa da tramite e da ostacolo alla vista, attraversa scene e luoghi come non visto, osserva ma non vede, subisce i gesti della terra, il pericolo di un terremoto, la pesantezza dell'acqua, il calore di un fuoco senza conseguenze. È un prigioniero, come tutti. È un pupazzo, senza corpo, senza vita vera, come tutti. Ma può anche essere un dio, o un santo, o se vuole anche uno stronzo, come gli dice una delle sue infinite amanti.
Il personaggio di Bale è tutto e il suo contrario, è nulla, è potenzialmente infinito, inevitabilmente limitato. Sembra vivere mille vite, oppure nessuna. Conta solo il momento, come dice una massima buddhista citata nel film. Ed è difficile, onestamente, non vedere in questo discorso anche un riflesso della poetica di questo Malick tardo, magniloquente, pedante, ma unico: sono le immagini stesse a essere tutto e niente, a valere come tramite tra l'uomo e l'infinito o come una granello di polvere, uniche e insieme perdute in mezzo a milioni di altre.
Malick in fondo non ha più uno sguardo puro, le sue inquadrature hanno strati molteplici: c'è la macchina da presa, la vera protagonista, e ci sono gli attori, che non recitano ma si mostrano, mettono in scena immagini e movimenti della loro intimità; ci sono i dialoghi, che sono quasi sempre silenziati, e ci sono le voci fuori campo. Le stesse frasi e parole classiche, insostenibili e sussurrate infinite volte - Father, My Son, remember, look at me - questa volta sembrano disperdersi pure loro nell'aria, nell'acqua, nel fuoco e nella terra, ché ovviamente Knight of Cups è anche un film sugli elementi, su tutto quello che ci circonda e ci inghiotte, che ci lascia stupefatti e impotenti, convincendoci a cercare la libertà, addirittura a credere di poterla trovare, quando invece non facciamo altro che spostarci, nemmeno più viaggiare.
Poi c'è un altro inizio, sì, come si sente nel finale, ma solo per continuare a ripeterci, orizzonte dopo orizzonte, immagine dopo immagine.