Marie e Boris sono sposati da quindici anni; hanno due gemelle sveglie e sorridenti, Jade e Margaux; affrontano come ogni coppia le fatiche del quotidiano. Quello che non c’è, nella loro vita di alti e bassi, è l’amore. Accompagnano le figlie a scuola, cucinano, leggono, dormono: dividono la vita, ma controvoglia. La convivenza è un incidente causato dalle ristrettezze economiche. Campano sotto lo stesso tetto perché non c’è alternativa per far coincidere i conti e la felicità.
L’economie du couple – titolo sublime e didascalico – di Joachim Lafosse mette in scena la dissezione di un amore, è la radiografia spietata e puntuale di un rapporto esacerbato dalla compresenza coatta, racconta i resti di quella che fu una famiglia e che si è trasformata in un groviglio di rivendicazioni, urla, calcoli gretti e meschini. Lafosse inquadra il suo dramma intimo e soffocante – si svolge quasi interamente in una casa solare, diventata un’angusta galera – in scene secche ed essenziali; riconduce alla pratica ogni malessere; rifiuta la psicologia spicciola per descrivere l’aridità di due persone che un tempo si amavano e che sono diventate estranee; adotta una narrazione quasi tattile, materica e uno stile fluido e geometrico.
Marie (Bérénice Béjo) è una donna borghese, prigioniera dei suoi stessi privilegi, di cui è ossessivamente accusata; Boris (Cédric Kahn) è un proletario diventato architetto, più pronto all’autocommiserazione che al sacrificio, vittima di se stesso, dell’odio/invidia per il denaro altrui, stritolato da meccanismi cui reagisce con violenta goffaggine (debiti, astio sociale e affettivo, estraneità). L’economia della coppia è la traduzione in calcoli biechi e tangibili di ogni possibile deriva sentimentale: il film si attorciglia sulle infinite discussioni dei protagonisti, in cui ogni rivendicazione fa trasparire la disperazione per un’infelicità non programmata, per un fallimento sentimentale vissuto come un naufragio. Marie e Boris urlano e strepitano, si rendono vili agli occhi delle figlie, si accusano di debolezze, incoerenze, inerzie, immobilità. Vittime e carnefici di loro stessi, piegati dall’insoddisfazione che governa le loro vite, con gli sguardi ormai pieni più di pena che di affetto.
Lafosse costruisce il film in lunghi segmenti, spesso ripetuti o ampliati, con minime variazioni. Imposta i dialoghi sulle declinazioni pratiche della vita, rifugge il melodramma – che però miracolosamente a tratti esplode – soffermandosi in lunghe digressioni su immobili da valutare e orari da rispettare. Marie e Boris sono però personaggi di carne e sangue, fragili come vetro; portano nell’andamento desolato del passo, nelle occhiaie intorpidite da lunghi bagni caldi, nella vergogna che segue ogni litigio, le stimmate di un dolore banale quanto concreto. E nell’unico momento sentimentale che i personaggi si concedono – e che Lafosse concede agli spettatori – s’intravede, attraverso un ballo scatenato da condividere, finalmente, con le loro bambine, la stanchezza di vivere, la pulsione a cedere, il piegarsi a un’illusoria soluzione che la mattina dopo sembra già un fantasma.
L’economie du couple è un magnifico e terribile mélo dei nostri giorni, raffreddato e già consunto, figlio di un tempo di sconfitte e remissioni, stilisticamente impeccabile e terribilmente – in senso letterale – commovente: guance asciutte e un groppo in gola a chiedere conto di un fallimento che è già dietro le spalle. Un film in cui il presente è vissuto nell’attesa incombente del futuro, figlio storto di un passato che ha vinto, piegato, sconfitto i suoi protagonisti.