Un film che mette in scena Jean-Luc Godard nell’atto di mettere in scena A bout de souffle. Linklater ha aggiunto: girato con lo stile e lo spirito di Jean-Luc Godard che gira A bout de souffle. Un film americano in francese, con attori francesi, che racconta la Nouvelle Vague del 1959, girato a Parigi e a Cannes (con qualche ripresa a Marsiglia…), presentato a Cannes per una platea di critici (soprattutto) parigini. L’omaggio romantico di un regista texano cinefilo all’onda propagata da un gruppo di critici cinefili che si fanno registi, e che non smette ancora (mai) di increspare la superficie liquida dell’immagine. (Quasi) tutto vero. Perché l’histoire (du cinéma) è proprio questa.
Quattro persone sono sedute in sala, guardano un film (Pêcheur d’Islande, di Pierre Schoendoerfeer, prodotto da Georges de Beauregard) e fumano: sono Jean-Luc Godard, François Truffaut, Claude Chabrol e Suzanne Schiffmann. Il film, concordano, è déguelasse. Ovvero: splendido. Truffaut presenta a Cannes Les Quatre Cents Coups, Godard convince Beauregard a produrgli il film d’esordio. Qualche settimana di preparazione e casting, venti giorni di riprese (numerati), visite sul set degli amici, montaggio e poi visione privata per Godard, Truffaut, Chabrol, Schiffmann. Com’è il film? Dégueulasse. Il più dégueulasse dell’anno. È nata la Nouvelle Vague
Si potrebbe discutere per degli eoni se A bout de souffle sia il film della Nouvelle Vague, o il film di Godard (come Les Quatre Cents Coups per Truffaut), ma la risposta è nell’urgenza diegetica: è il primo film in cui Godard predispone la sua idea di cinema e quindi consente lo stupore, la scoperta, lo spaesamento (anche la contrarietà) di quelli che stanno sul set e dietro la macchina produttiva e distributiva, prima ancora degli spettatori in sala, oggi. Linklater vuole fissare il jump cut della storia del cinema, non sovrintenderne alla post-produzione teorica, alla sua fissazione storiografica (Rossellini direbbe: la cristallizzazione).
Narrativamente lineare e semplicissimo, rivela una stratificazione di posizioni e riflessioni sulla scrittura e la ri-scrittura. D’altronde Linklater è il regista della scrittura seriale, continuata, sovrascritta, dai Before… a Boyhood. Film-citazione, come quelle con cui Godard ammorba la troupe sul set, sempre sul significato e il senso del cinema, sul rapporto tra immediatezza e predisposizione, spesso sul plagio, sulla differenza tra il rifacimento e l’omaggio, il calco e il prestito.
Cortocircuito e contraddizione: un film che si intuisce frutto di un lavoro maniacale di documentazione e ricostruzione storica, enciclopedico (più illuminista che postmodernista), ma che mostra Godard nell’atto di scrivere, a mano e in bella calligrafia, le note di regia la mattina stessa delle riprese, in un café, ostentando di non averle volute preparare nemmeno la sera prima. Perché dichiara di aver abbandonato l’idea d’écrire (un romanzo) per tourner (un film).
Mimetico, nella scelta degli attori, nella predisposizione filologica degli spazi e delle azioni, persino dei gesti, delle parole. Eppure, ogni faccia ha un piccolo scarto, più che una differenza dall’originale è una sottolineatura iperbolica di un tratto (iconico), tranne che per Jean Seberg (l’unica americana), di cui Zoey Deutch è reincarnazione più che interpretazione. Il corpo più morbido e malleabile è quello di Aubry Dullin, che dà vita a un Jean-Paul Belmondo irresistibile e consente a Linklater di rivelare uno dei più straordinari passaggi all’atto della finzione attoriale: quello tra gesto della boxe e quello della recitazione (Belmondo è attore-pugile, pugile-attore). Un arretramento dalla riproduzione fedelmente fotografica (nell’epoca della generabilità tecnica dell’AI) al bozzetto, lo schizzo, ai confini con la caricatura. Anche se di fotografie è pieno il film (e i titoli di coda), realizzate sul set e sempre innaturali, in posa, pensate, inventate lì per lì.
Il cinema (per come lo teorizza Godard, in continuazione) può fissare la realtà meglio della fotografia, d’altronde i critici (e registi) si dicono discepoli di Roberto Rossellini in visita ai Cahiers de cinéma, tra loro anche Jean Rouch, il cinéma verité, che non è la verità del reale, ma la verità dell’incontro del cinema con il reale. Si possono ri-fare gli ambienti, non gli eventi. Che devono essere lasciati al ricordo, alla fantasia, al racconto. Anche alla magia, e quindi alla finzione.
Godard può chiedere alla Seberg di arrivare sul set a piedi, perché questo la aiuta a entrare nel personaggio di Patricia, provare a impedirle di farsi truccare o a Jean-Paul Belmondo di farsi lavare la camicia alla fine delle riprese. Ma Linklater no. Il suo cinema non è moderno, ma classico (quello della politique des auteurs), e non prova mai nemmeno per un istante a inserire un jump-cut, o a mostrare le scene rifatte. Non è un remake, ma un film sul tournage, che però non ha “lo stile e lo spirito” di A bout de souffle. Per fortuna.
Linklater si tiene lontano dall’effetto Musée Grévin, il celebre museo delle cere parigino: non c’è alcun intento di museificazione del cinema, ma soltanto di narrazione. Gli attori di Nouvelle Vague non sono quegli uomini e quelle donne, ma nemmeno i personaggi vogliono (e devono) essere loro perfettamente fedeli: sono, letteralmente, i personaggi di un film sulla Nouvelle Vague. E in questo ricorda da vicino Mank, sulla Hollywood degli anni ’40: Linklater e Finch sono autori della medesima generazione, con una teoria dello sguardo e del racconto contigua (è la post New Hollywood).
La grazia, e il piacere, del film è quella di raccontare quella Storia esattamente come i cinefili vorrebbero che fosse andata: la redazione dei «Cahiers» come una cerchia eletta di spiriti purissimi, i critici amici, mai gelosi delle reciproche fortune, Truffaut come uomo generoso, capace di contenere le intemperanze di Godard, la vita sul set come incontro di spiriti liberi che si divertono, giocano, come bambini felici. Lo scontro tra Godard e Beauregard limitato a un numero comico di funamboli improvvisati, immediatamente ricomposto (lo risarcirà Le Mépris, l’omaggio al “produttore amico”).
L’unica, piccola, increspatura è data dalle rimostranze di Jean Seberg, che hanno una lingua (l’inglese) e un carattere (nel sottotitolo sullo schermo) differenti, stranieri. È andata così? Quasi certamente no, ma ci piace moltissimo pensarlo, e vederlo. Forse ne abbiamo addirittura bisogno. Un film, come tutti i film, che è una bellissima bugia, una menzogna come tutte le narrazioni. E come tutte le bellissime bugie, e contraddizioni, di Godard.
Per assistere alla prima di Truffaut a Cannes, in concorso, ruba un po’ d’argent dalla cassa dei Cahiers, si concede un viaggio décontracté da Parigi alla Costa Azzura, in decapottabile (ancora: Le Mépris). La scena in cui riesce a convincere Beauregard a produrgli il film è girata sulla Croisette e sullo sfondo si vede il Palais Miramar, dove vengono proiettati i film della Quinzaine de cinéastes (già des réalisateurs), che nasce dopo la contestazione all’edizione del Festival di Cannes del 1968. Tra i registi che irrompono al Palais des Festival e che parteciperanno alla fondazione della SFR (Société des réalisatrices et réalisateurs de films) ci sono proprio François Truffaut e Jean-Luc Godard.
Più pedagogico che didascalico, ma se porterà qualche giovanissimo turco (critico o aspirante regista) a vedere (o rivedere) l’originale, magari in sala… ecco: è un’altra cosa di cui avremmo davvero bisogno. Se tutte le “frasi” di Godard (sul montaggio, la ripresa, la direzione degli attori, il cinema americano, e sempre sulla scrittura) avranno una funzione di supplenza all’aver letto (e riletto) i pezzi che scrivevano sui «Cahiers», allora passeremo sopra anche a certe scivolate un po’ evangeliche.
Visto alla Salle Debussy che Thierry Fremaux, a ogni proiezione, non manca di ricordare essere stata la preferita di Godard. A bout de souffle venne presentato a Berlino (dove vinse il premio per la miglior regia, come Les Quattre Cents Coups di Truffaut Cannes) e non sulla Croisette. C’è aria di risarcimento. E di riscrittura.