Un luogo, un arco temporale: una fattoria dell’Altmark, nella piana dell’Elba, nel corso del XX secolo. Alma, Erika, Angelika e Lenka, quattro giovani donne vivono e raccontano quel luogo e le persone che lo hanno vissuto in momenti diversi, in quattro segmenti cronologici intrecciati tra loro in metrica variabile, attraverso rispondenze che scavalcano i decenni, tasti che in qualche misura ha già suonato Edgar Reitz e inquietudini che possono ricordare Haneke. Ma non ruota intorno a un’Heimat definita, Sound of Falling, la Storia è un’eco ancora più lontana di quanto non fosse nella saga reitziana e il filo è affidato alla paradossale coesistenza di forza e fragilità nell’"anello più forte", nella trasmissione matrilineare della consapevolezza; e si perdonerà a Mascha Schilinski e alla sua sceneggiatrice, Louise Peter, anche la distruzione a colpi di mazza del Fliesenhofen di maiolica, del cuore secolare del focolare, se il punto è mostrare le posizioni di una nuova generazione di donne e di madri senza dare per scontato che siano una vittoria assoluta.
C’è ovviamente una costante, che emerge energicamente nel titolo internazionale, la caduta, fisica e metaforica, che, perlomeno nel primo caso genera un suono più o meno forte a conferma dell’intensità dell’impatto, della gravità dei corpi, della loro esistenza verificabile, dell’intensità dei fatti nel loro accadere. Il suono della caduta, la cognizione del dolore. Una traccia d'interpretazione diversa e altrettanto potente è nel titolo originale, In die Sonne Schauen: guardare il (nel) Sole. “Né il Sole né la morte si possono guardare in faccia”, scrive a metà Seicento François de La Rochefoucauld. E qui la morte la si vede, eccome, come ci si confronta da subito con la malattia che paralizza una delle sorelle di Alma, con l’amputazione che costringe a letto il fratello Fritz. Ma c’è forse un motivo legato all’atto della visione, e alla temperatura “familiare” del film di Mascha Schilinski, che ci riporta a quante volte le madri, le nonne, da bambini ci dissuadessero dal guardare direttamente il Sole, paventando danni irreparabili, permanenze retiniche non piacevoli, fantasmi inchiodati al fondo degli occhi. E se il film forse la morte non la guarda in faccia in senso stretto, di sicuro si lascia invadere dalle sue manifestazioni, dal senso di compresenza con la vita che proprio nostro secolo ha cercato di attenuare, di esorcizzare. Ecco allora il ronzio insistente delle mosche, i corpi preparati per l’estremo saluto, o per essere affidati all’immagine fotografica, aggiunti alla raccolta di quelli e quelle che non ci sono più, rivelata abbastanza presto nel film, alla curiosità infantile di Alma e dello spettatore, esposta in una mattina di novembre su un mobile nel passaggio verso la gute Stube.
Pare che l’idea del film sia venuta a Schilinski quando si è incidentalmente trovata di fronte a una fotografia degli anni ’20 del secolo scorso, l’immagine di tre donne di cui non sapeva niente: studium chiaro, per usare il lessico barthesiano, tre donne nella Germania rurale di inizio ‘900; ma il punctum, come sempre nella fotografia di ritratto di quel tempo, è nello sguardo, fuori campo, sempre in camera, che costringe a immaginare la vita, le aspettative, la Weltanschauung di persone sconosciute, vissute cent’anni prima di noi. Difficile che però Schilinski, che tra l’altro ha lavorato a Colonia per una nota serie tv, non avesse in mente anche Menschen des 20. Jahrhunderts, (lett. Persone del XX secolo), il progetto monumentale del fotografo renano August Sander (1876–1964), una documentazione, secondo una classificazione chiara, rigorosa e oggettiva delle categorie di lavoratori e lavoratrici della Germania tra la Repubblica di Weimar e l’ascesa del nazismo, affidata a centinaia di lastre alla gelatina d’argento organizzate poi in volumi. La prima sezione, Der Bauer, l’agricoltore, mostra nel semplice e perspicuo nitore della fotografia su lastra ottenuta col banco ottico, singoli, coppie, famiglie della campagna tedesca. Proprio come il ritratto collettivo che la famiglia di Alma sente la necessità di ricomporre davanti all’obiettivo, facendo in modo di documentare la presenza della figlia maggiore, Lia, bella e promettente, morta cadendo (o lasciandosi cadere) dal carro che la stava portando a servizio nella fattoria dei vicini dopo un’estate di siccità e perdite ingenti. Niente di aberrante, era la norma, fin dai tempi del dagherrotipo, fotografare le persone non solo sul letto di morte, ma anche facendo parvente che fossero ancora vive. È su una di queste immagini che insiste l’inquietudine di Alma, che riconosce una relazione speciale con il ritratto post-mortem di una ragazzina che le somiglia, e della quale scopre di portare il nome, come si usava (in tutta Europa, a ben vedere), in memoriam, con tutto l'aggravio che ne conseguiva. È un’immagine in cui la posa studiata per simulare il sonno della bambina apre la strada a un punctum rivelatore nella traccia fantasmatica della madre, sottrattasi in ritardo allo scatto. Un punctum che il film insegue anche altrove, nel suo formato 1,33:1, senza certo ignorare che si tratta di un tema antico come la fotografia e come il cinema: cosa esiste fuori dal quadro? verso chi, verso dove va la traccia fantasma di Angelika rimasta nella polaroid di famiglia scattata alla fine di una giornata troppo intensa da reggere? Dove vanno le immagini stesse, fisicamente e metaforicamente? Non è un caso se, in Sound of Falling assistiamo al passaggio dal banco ottico definitissimo all’incertezza crepuscolare dell'istantanea a stampa diretta, a smartphone che (in assoluta controtendenza, ma coerentemente) non producono mai immagini. Ma il punctum è anche diegetico, dentro al quadro, come la sindrome dell’arto fantasma di Fritz, la sopravvivenza incorporea del dolore che incuriosisce Erika, come la condizione di orfana dell’amica di un’estate che intriga Lenka, come il pensiero che prevale sull’azione, nella riflessione di Angelika distesa in un campo di grano tentata dall’autodistruzione, in una scena che vale il film.
Non cerca certo di dare risposte Mascha Schilinski, ma semina e coltiva interrogativi e immagini che continuano a lavorare carsicamente a giorni di distanza dalla visione, come le macchie negli occhi su cui le nonne ci avevano messo in guardia, come il cinema, quello che libera la testa, dovrebbe fare.