Marcello e Maddalena vanno in periferia nella casa di una prostituta per un po' di trasgressione, per un po' di intimità collocata altrove e per potersi congedare, al mattino, da quella umanità così lontana dal loro universo mondano. I condomini - come nelle inquadrature che aprono tanti film sulle periferie degli anni Cinquanta - fanno da scenografia, incombenti, quotidiani eppure fuori luogo. Il contesto sociale e urbanistico descritto in questa sequenza di La dolce vita è lo stesso da cui vengono Cabiria o gli sgangherati truffatori di Il bidone, quello delle baracche degli sfollati e dei tuguri dove la gente attende l’assegnazione delle case popolari, quelle ospitate proprio tanti enormi, surreali palazzi in costruzione. Eppure Fellini fa un passo oltre, tanto sensibile e attento da essere quasi profetico. La distanza tra il mondo delle periferie e quello cui appartengono Marcello e Maddalena è abissale ma entrambi testimoniano la caratteristica che porterà l’Italia del dopo boom economico alla crisi: l’incapacità (o impossibilità?) di stare al passo con la trasformazione in atto nella società assorbendone le conseguenze e metabolizzando le contraddizioni. La marginalità della periferia si oppone infatti qui a una marginalità diversa, non economica ma esistenziale, quella della borghesia del miracolo, una borghesia creata artificialmente, una classe in crisi di identità fin dalla sua stessa nascita. Lo simboleggia bene la lussuosa macchina decappottabile parcheggiata nel fango desolante del quartiere privo di servizi e di strade asfaltate, paradossale come lo erano le cornici vuote appese ai muri de Il bidone, paradossale come può essere lo sguardo visionario del vero realista.