Per raccontare la Capitale in un film di due ore le immagini non sono sufficienti, neanche a Fellini. Così Roma è anche un saggio sui suoni dell'Urbe: un flusso ininterrotto e sfibrante di rumori, di tram che sferragliano, di ruspe che trivellano, di automobili che strombazzano, di dialetti e lingue (perfino il cinese!) che si accavallano, dove le musiche di Nino Rota cedono il passo agli stornelli, e i motti triviali (“A Roma se dice come magni cachi”) si alternano alle impressioni di Gore Vidal sulla città. I momenti di quiete sono così pochi che si imprimono nella memoria. Il silenzio rende onirica la sequenza, tra notte e alba, in cui il frinire dei grilli collega le immagini di un gregge che passa davanti a San Giovanni in Laterano a quelle delle prostitute che appaiono come fantasmi tra la nebbia e le rovine del Mausoleo di Cecilia Metella. E un silenzio rotto dal rintocco di una campana introduce la scena con la Magnani, bloccata sul portone di casa dalla voce di Fellini. Qui non servono suoni per parlare di Roma, basta la presenza della donna. «Un'attrice romana che potrebbe essere anche il simbolo della città. Una Roma vista come lupa e vestale, aristocratica e stracciona, tetra, buffonesca... Potrei continuare fino a domattina». «A Federì, va' a dormire va'».