Una volta giunto all’età della ragione è stato 8 ½, ma prima, in uno stato ancora infantile e pulsionale, per me Fellini era soltanto Amarcord. E tra Volpine, Gradische, Giotto «che con le palle fa il botto» e avvocati svillaneggiati mentre fanno da anfitrioni, per un bambino di meno di dieci anni abituato a cowboy, cupi investigatori e ciarlatani su Lancia Aurelia supercompresse, quella visione televisiva in prima serata fu uno squarcio. Violento e luminoso. Sul cinema, certo. Ma anche nella visione della donna.
La-ta-bac-ca-ia. Enorme, paurosa, aggressiva e gommosa, con un maglioncino d’angora celeste a celare il mistero di una grazia ripetuta tra sé e sé soppesandone le sillabe per prolungare la soddisfazione. Un’epifania di morbidezza preannunciata da un’inquietante ombra sul muro, alle spalle di un Titta indifeso. L’erotismo e il terrore di esso, congiunti. E poi la disfatta, l’umiliazione, la febbre del povero Titta nella sequenza successiva. Un fallimento. Un «ooh!» di meraviglia e timore del bambino nei confronti di un universo con cui si era confrontato per la prima volta. E un parametro. Per pensare che tutte le donne a venire, se mai fossero davvero venute, dovessero essere necessariamente così. Fu la magia di una scoperta, che in queste brevi righe assume allarmanti ombre onanistiche, può sembrare una confessione psicoanalitica e invece è soltanto la memoria grata di come prese forma un’emozione.