È uno dei film meno amati di Fellini. Quando uscì, nella primavera del 1980, venne criticata soprattutto la raffigurazione del femminismo che sembrò caricaturale e deformata. In realtà non è un film sull’universo femminile ma sull’identità maschilista della generazione cui apparteneva Fellini, cresciuta durante il fascismo (di cui non a caso si intravedono i feticci coloniali nella villa-bunker di Katzone, doppio priapesco, ridicolo e mostruoso del protagonista Mastroianni). Un’identità di cui sviscera con estrema lucidità ogni connotato - l’infantilismo, il mammismo, l’egoismo – con un’ironia che spesso assume tonalità lugubri. Esemplare, in questo senso, la bellissima sequenza dell’archivio-labirinto dove Katzone conserva gli audio e le immagini delle sue conquiste, configurato come un cimitero. Perché questo film – l’unico onirico dall’inizio alla fine, una sorta di lungo incubo – evoca anche, dall’intimo dell’inconscio e delle pulsioni, lo spaesamento di una generazione costretta a misurarsi col proprio fallimento.