Se Moraldo (nomen omen) è l’asse “morale” dei Vitelloni, il Toby Dammit che dà il titolo al segmento felliniano di Tre passi nel delirio è l’autentico “dannato” (altra scelta onomastica, già però del racconto originale di Poe) di una parabola autodistruttiva, inaugurata dalla rappresentazione allucinata, irripetibile del Grande Raccordo Anulare romano, all’epoca non ancora “sacro” o consacrato da un Leone veneziano.
Sono entrambi, a distanza di quattordici anni l’uno dall’altro, personaggi malinconicamente straniati (Moraldo) o tragicamente stranieri (Dammit), molto cari all’universo del maggior autore visionario del cinema italiano. In partenza (alla fine) o in arrivo (all’inizio) nei rispettivi film, risultano incapaci di comprendere o restare nell’ambiente loro assegnato dalla nascita, a causa di una vita provinciale monotona e opaca, ipocrita e bigotta, smaniosa di svaghi e di normalizzazione, o dall’orrenda e altrettanto provinciale società dello spettacolo (all’)italiana, la quale si trascina da un premio all’altro con mostri dappertutto, parte integrante della massa chiassosa immonda e mondana che sciama ovunque, dalla strada alle istituzioni, dal cinema e alla televisione, senza soluzioni di continuità.
L’incubo felliniano passa attraverso la loro incapacità di comunicare e la percezione triste, poi ironica, dell’ambiente circostante, dove lo sdegnato allontanamento finale verso una Roma possibile si salda fatalmente all’arrivo nella Roma più deteriore per siglare davvero la fine, cioè la morte per emblematica e punitiva decapitazione.