Si prenda un titolo come Un borghese piccolo piccolo, con molta probabilità il più rappresentativo tra i Monicelli anni Settanta. L'atmosfera plumbea e il grigiore soffocante che, dalla seconda metà di quel decennio in poi, avvolgono la gloriosa e oramai vetusta commedia all’italiana (col suo cinismo e sarcasmo, ma anche il grottesco e lo spirito dissacratorio), sono ben delineati in quel film, che fotografa la realtà nazionale del periodo. Un “paese reale” cui ciascuna delle pellicole di quel sottogenere – anzi, genere a tutto tondo – ha sempre fatto riferimento.
Agli anni della contestazione generale, degli autunni caldi, degli scontri di piazza fanno seguito gli anni di piombo e i giorni delle azioni terroristiche, delle stragi impunite, degli omicidi di magistrati, dei giornalisti gambizzati. Le istituzioni democratiche attraversano la loro fase più cupa e il “paese reale” si è avvitato in una crisi senza precedenti nella sua storia repubblicana. Le fazioni politiche più estreme portano l’attacco al cuore dello Stato, di lì a non molto Aldo Moro verrà sequestrato e ucciso. La sinistra parlamentare è obbligata a sostenere governi di unità nazionale pur non facendone parte, e la sua posizione di “non sfiducia” – imposta dagli eventi quale atto di responsabilità politica e di dissociazione dalla lotta armata – diventa agli occhi di molti una "non opposizione", un appiattimento, addirittura un tradimento. Bersagli del terrorismo iniziano perciò ad essere anche sindacalisti e attivisti di sinistra. Nel Paese si diffondono paura, insicurezza e pessimismo, diffidenza tout court verso ogni forma di contestazione, paranoia sociale. Nel “paese reale” si opera una frattura ideologica tra ceti medi che si trincerano su posizioni conservatrici, e la sinistra, a sua volta abbandonata da un movimento giovanile che non vi si riconosce più e la scavalca, si pone su posizioni massimaliste, talora avventuristiche.
Nel cinema italiano dei primi anni Settanta ci si può ancora imbattere in qualche parodistica operazione, prima che riflessioni più serie si impongano. Come nel sottovalutato Vogliamo i colonnelli, in cui, tenuto a battesimo un governo ombra ed elaborato un piano eversivo, l’onorevole missino Giuseppe Tritoni-Ugo Tognazzi tenta il colpo di stato e non ne imbrocca una: tutto gli va storto e l’unico risultato che ottiene è di suscitare il golpe bianco di un partito avverso – manco a dirlo un partito reazionario di faccendieri e baciapile dorotei, di palazzinari e camorristi – e la svolta repressiva che ne segue. In un clima di paura e paranoia condivise, dubitare di tutti è normale. Il vicino di casa può essere un terrorista e l’allarmismo crea fantasmi, colpire e nascondersi come un pesce nell’oceano sembra essere la cosa più facile del mondo. Pare persino, il terrorismo, opzione dotata di vere possibilità di sovvertimento.
C’era crisi economica in Italia, e forte, anche nella seconda metà dei Settanta. C’era un paese lacerato da insicurezze di tipo economico (inflazione crescente, diminuzione dei posti di lavoro, disoccupazione giovanile), ma pure ideologico, politico, etico, in cui i comuni valori di riferimento sembravano aver perso il proprio carattere di conforto normativo. Ad essi, fatalmente, si sostituirono valori individualistici e “particulari”, talvolta veri e propri disvalori elevati a moralia. Il “posto sicuro” – nella terza e conclusiva fase della commedia italiana, quella del riflusso e del conseguente amaro bilancio – diventa scelta (oltreché ragione) di vita, per assicurarsi il quale tutto è lecito: dalla rinuncia alla dignità individuale al cambio senza problema alcuno di casacca ideologica, sino all’illecito, all’inciucio, magari consumato al riparo di consorterie esclusive e nel nome d’una “fraternità” tra adepti. L’opposto di quella solidarietà fra disgraziati poveri ma belli che rappresentava la cifra della commedia di un tempo, da I soliti ignoti a La grande guerra, annoverando anche i titoli con Totò protagonista.
Commedia caratterizzata da teneri bulletti di periferia che vogliono fare gli americani, pusillanimi che tentano di sopravvivere come possono alle circostanze imposte da eventi più grandi di loro, ladruncoli improvvisati che sperano nel colpo gobbo, superficiali di bell’aspetto che elevano l’automobile a distintivo del proprio benestare, arrivisti cinici e sfigati, emigranti che cercano la fortuna e se ne tornano con le pive nel sacco, frustrati che trovano nel sesso l’unica risposta alla propria grigia esistenza, straccioni divorati dalla brama di denaro, di successo, di potere, e non più innocenti come nelle sceneggiature zavattiniane ma brutti, sporchi e cattivi.
Stando a Monicelli, poi, siamo lontani dai propositi di denuncia in cui i primi segni d’ilare sterzata verso il dramma si intersecano col sociale dei compagni, delle proteste sindacali, delle lotte operaie. O persino dall’irruenza, nella società italiana, di nuovi costumi sociali, dal conflitto nord-sud alle menzionate disparità sociali tra lavoratori e imprenditori, all’emancipazione femminile. Dimentichiamoci gli improvvisati, scalcinati avventurieri in cerca di un impossibile feudo che, per sfuggire alla morte, si ritrovano a combattere alle Crociate. Pallide reminiscenze sono la valorizzazione comica di un attore, Vittorio Gassman, destinato a diventare una delle più formidabili icone di quella commedia, o la scoperta di volti popolari, da “Capannelle” Pisacane a “Ferribotte” Murgia, che, del genere, avrebbero segnato l’immaginario collettivo come un distintivo marchio di fabbrica.
Le inchieste insabbiate, le prove inquinate, l’informazione sempre meno libera, la sfiducia nello Stato, il senso di una vulnerabilità tanto più spaventosa quanto più distanti e persino nemiche vengono percepite le istituzioni, fatalmente generano la chiusura in sé stessi, l’omertà, la giustizia personale. Prime strisce di televisione spazzatura e spettacoli di basso intrattenimento (anche cinematografico) si insinuano nei palinsesti allo scopo di sedare l’inquietudine e costruire un clima di apparente tranquillità, puntando alla rimozione e, poco a poco, alla disaffezione, al disinteresse dei più verso il sociale, verso l’impegno e la vigilanza democratica che ciò comporta. La demonizzazione dei giovani in quanto fautori di un ordine differente e antitetico porta alla loro individuazione in termini di ostilità sociale, d’inimicizia a prescindere. Porta all’accettazione di angherie consumate nel segno dell’indifferenza e dell’insipienza burocratica sulla pelle dei deboli. Angherie che gli ultimi scampoli della commedia italiana subiscono senza alcuna ribellione, essendo parte di quel sistema e preferendolo ad eventuali altri, sulla cui maggiore giustizia non sono disposti a credere e che, d’altronde, non sono in grado di concepire. Porta a un Paese ove cresce la voglia di leggi eccezionali e di patiboli, perfetti esponenti della maggioranza silenziosa a far proprie tali istanze e ad applicarle. Arbitrariamente.
Porta, in sostanza, all’accettazione di un imminente male oscuro, parafrasando un tardivo titolo della filmografia di Monicelli. E stando a un cineasta che di pregi e difetti, grame virtù e frequenti vizi del Belpaese è stato uno degli ineccepibili cantori, probabilmente il più picaresco, di tale tormentata e tormentosa temperie pellicole come Un borghese piccolo piccolo o i corali, non meno corrosivi Signore e signori, buonanotte e I nuovi mostri (firmati in collaborazione con altri colleghi), si pongono quali opere eponime. In un panorama produttivo che incoraggia la produzione di film “poliziotteschi” – come bene osservò Steve Della Casa in una monografia dedicata all’autore – con relativa pletora di sbirri spesso corrotti e comunque violenti quand’anche si battano contro il crimine (dando quasi sempre l’impressione di farlo in base a monomanie e ossessioni personali più che per affermare il Diritto). Un panorama in cui gli idealisti della precedente generazione hanno già cantato il proprio de profundis (si pensi a C’eravamo tanto amati di Scola), in cui i peggiori fantasmi della convulsione politica in atto hanno già avuto modo di manifestarsi (come in Cadaveri eccellenti di Rosi o in Todo modo di Petri), e in cui i principi di base della famiglia e della sua integrità risultano messi sempre più in discussione. Ebbene: la commedia italiana, in particolare quella à la Monicelli, si lascia alle spalle i romanzi popolari che pur efficacemente descrivono ambiente e costumi del decennio, le problematiche di Caro Michele, la sorridente, innocua perfidia di Amici miei – nel capitolo secondo, a loro volta vittime di un nuovo che avanza, di un rancido Fato che, inesorabile, ne travolge esorcismi e “zingarate.”
L’italianità del Monicelli ultima fase si fa desolante e sgradevole, paranoica e cinica. E al pari delle opere di denuncia o d’impegno civile, girate nei medesimi anni con piglio anche più sostenuto che in passato, reazionaria. Becerume e volgarità assortite divampano a vista d’occhio. Un accumulo di panni sporchi, dove solo a sprazzi, tempo dopo, si intravede l’eco lontana, tenera e malinconica, dell’avventura dietro la tragedia in cui per resistere a fame e miseria, in pieno conflitto mondiale, ci si arrabatta per sopravvivere come si può.
Ma sono, appunto, sprazzi di un Paese e di un cinema mutati, dove la televisione è ormai voce padronale, e i Picari o i Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno sono l’ombra ingrigita dei tempi di Brancaleone. Fa capolino la fiction, quando non l’agiografia di format mediatico, sebbene girata con consueto piglio autoriale (Rossini! Rossini!), anticipata dalla commedia di sapore storico-popolare, canovaccio per il debordante istrionismo dell’interprete principale (Il marchese del Grillo). E in un intimismo dolce-amaro che è riverbero di un’istituzione familiare alle prese con un decennio e un’Italia in avanzamento, nella contrapposizione sessuale che la permea e che coincide con la discrepanza tra ambiente rurale e cittadino, occorre sperare che sia femmina o decidere di “fare Paradiso,” e, in un simile assetto sociale, non individuare soltanto parenti serpenti. Prima che a 91 anni di età assesti, in extremis, un’ultima zampata, dietro la scanzonata rilettura della Campagna d’Africa (Le rose del deserto).
Titoli altalenanti, gli ultimi di Monicelli, di una filmografia gloriosa, discontinua in finale di partita e non sempre ricompensata (si pensi a un’opera incompresa e sfortunata, perduta e recentemente recuperata, quale Temporale Rosy). Tutti, però, egualmente mordaci radiografie di uno status socio-nazionale che ha sventolato, talvolta cambiando registro, a seconda del vento e degli umori, proprio come il Tricolore. Ma dove sempre la firma del cineasta si fa luce nelle pieghe più riposte, come quando fuori piove. Di questo cinema perfetto prima e, forse volutamente, imperfetto dopo, sintomatico specchio dell'Italia, occorre essere grati a Monicelli. Soprattutto per averci provato, nell’ultima fase, con la grinta e la maestria di sempre. Anche in commedie altrui (da Sono fotogenico a La vera vita di Antonio H.), quando non puramente amichevoli (Il ciclone), con l’autoironia graffiante che lo contraddistingueva, la capacità di mettersi in gioco e prendersi in giro. Grazie, Mario.