Diceva Tati, in una bellissima intervista di Jean-André Fieschi e Jean Narboni, «Cahiers du cinéma» n. 199, marzo 1968: «Playtime è il contrario di un film letterario, è piuttosto scritto come un balletto. È scritto in immagini. Lo disegno (maluccio), mi racconto la storia per immagini, la costruzione narrativa deriva da questa visione. Conosco il film a memoria e sul set non guardo mai la sceneggiatura». Regia come direzione d’orchestra. Riprese come esecuzione di una partitura già scritta, anzi disegnata. Partitura in minore per figurine, apparizioni, gesti, suoni, rumori. Soprattutto rumori. Tantissimi: di scarpe e tacchi, poltrone (sscciaff), porte, automobili, pulsanti. Rumori di ogni cosa che fa rumore. E silenzi: dialoghi non sentiti dietro i vetri, porte insonorizzate che non sbattono, una severa signora in abito lungo che scivola nello spazio senza un fruscio.
Playtime è una partitura dodecafonica dove ogni nota e ogni silenzio hanno lo stesso valore. Un’immagine in trasparenza di là di un vetro, un vuoto o una presenza, suoni, schiocchi, bisbigli, scalpiccii: tutto allo stesso livello, niente privilegi, nessuna componente messa in rilievo, neppure la figura di Hulot. Un film dodecacomico, dove la comicità non ha una intonazione prevalente e le gag, non organizzate su una scala melodica, vengono fatte scivolar via, come svanissero senza lasciare tracce evidenti, per magari riaffacciarsi più in là, riscomparire, tornare.
Di film in film, Tati è andato progredendo verso rappresentazioni sempre più geometriche e astratte: senza mai abbandonare la naturale vocazione a conservarsi pur perdendosi e naufragando nel mondo, senza mai rinunciare alla voglia di turbolenze salvifiche, come nella liberatoria baraonda al Royal Garden, dove tutti possono ritrovare, dice Tati, «il gusto della vita». Esilissimo il filo narrativo, fondamentale il ruolo dello spazio globale e di ogni spazio particolare, popolati tutti gli spazi da una folla di personaggi ognuno con un compito, fosse anche soltanto quello di passare di lì, Playtime diventa un iperbolico meccanismo di accordi e raccordi, notazioni e note che si richiamano da lontano, da una zona a un’altra o all’interno di una stessa inquadratura.
Playtime si fonda sulla fisica dell’entanglement, sul misterioso rapporto che lega una particella atomica a un’altra gemella ma distante anni luce. Cose e persone si influenzano secondo regole misteriose e leggi sconosciute. La comicità del film è dispersa: sorge da ogni dove; è compatta: occupa ogni spazio; è molto discreta: nel senso comune della parola, cioè cauta, misurata, spesso invisibile, e nel senso con cui i fisici usano l’aggettivo discreto, cioè a indicare una serie composta da un insieme di elementi isolati, non contigui fra loro. Playtime è esperimento di perfezione costruttiva e maniacalità miniaturistica. È caparbiamente solido e felicemente fragile proprio come Tati che si muove sulle punte dei piedi tra vetri che ci sono e non si vedono e vetri che non ci sono e sembrano esserci.
In questo organismo troppo perfetto e troppo insolito, troppo pieno e troppo vuoto, ognuno può affezionarsi a un dettaglio, dieci minuzie, cento sfumature. E ogni particolare sta a indicare il tutto, come in quella mirabile inquadratura in cui il gesto del cameriere, in secondo piano, che spalma la colla sul pavimento del ristorante per rimettere a posto una piastrella, corrisponde esattamente al gesto di un altro cameriere, in primo piano, che sta spalmando la salsa sul rombo, pesce che continuerà a essere spalmato da un cameriere dopo l’altro senza mai essere servito e mangiato.
E l’aereo che si squaglia per il caldo, e il bidone a forma di colonna dorica, e l’asta dell’abat-jour in autobus? Un film inesauribile.