Al cinema, Philip Roth non ha avuto grande fortuna. Non molti (e non particolarmente memorabili) sono i film tratti dalla sua opera. Listen up Philip, pur basato su una sceneggiatura originale del regista Alex Ross Perry, potrebbe essere considerato come una sorta di Roth apocrifo. Personaggi e situazioni hanno infatti profondi debiti col mondo del grande romanziere americano.
Si racconta di un giovane scrittore di successo e del suo miserabile rapporto col mondo: ogni relazione sociale, a cominciare da quello con la fidanzata, viene mandato all’aria dal sarcasmo, dai continui rimproveri e dalla costante volontà di ferire e di imporsi agli altri, dall’incapacità di comprenderne i bisogni. Tagliare i ponti con tutti, isolarsi, è funzionale alla sua attività di scrittore: la sua vita, infatti, si rispecchia in quella di un misantropo scrittore più anziano, che diventa suo mentore (un barbuto Jonathan Pryce).
Il film si regge su un contrasto tra lo stile delle riprese e il carattere della voce over. Le prime si ricollegano a Cassavetes e a Mariti e mogli di Woody Allen, dichiarata fonte di ispirazione (uno stile di ripresa per certi versi simile si trova in un altro film indipendente visto a Locarno nei giorni scorsi, Christmas again di Charles Poekel, che col film di Perry condivide il direttore della fotografia, Sean Price Williams). Imitando in qualche modo l’aspetto del direct cinema, le riprese inseriscono i personaggi in situazioni in divenire, incerte, di cui non conoscono gli esiti.
Al contrario, la voce over è quella di un narratore onnisciente che tutto sa delle motivazioni dei personaggi e delle conseguenze delle loro azioni, che descrive quello che avviene ben sapendo attribuire le responsabilità di ognuno. L’apparente incertezza (e la conseguente possibilità di scelta) suggerita dalle riprese viene dunque negata da una voce over per la quale tutto si è già svolto e concluso.
Listen up Philip è perciò un film amaro e pessimista (non c’è nessuna svolta consolatoria – di quelle che si potevano trovare in un Woody Allen anni ’70 – e le note umoristiche sono quelle, fredde, del sarcasmo): il continuo scavo dentro se stessi e dentro gli altri in cui si concretizza l’attività di uno scrittore sembra necessariamente impedire una reale empatia con le sofferenze e le gioie degli altri e l’isolamento sembra l’inevitabile prezzo di questa attività.