Arrivati al giro di boa del Festival di Locarno 2014, è piuttosto semplice indicare chi rappresenti il vertice di questa prima parte della kermesse svizzera: Lav Diaz.
L’autore filippino, lo scorso anno presidente della giuria, ha proposto in concorso la sua ultima, monumentale, creatura: Mula sa kung ano ang noon (From What Is Before).
«Questa storia è la memoria del mio paese», dice la voice over dello stesso regista nel corso della pellicola: un vero e proprio viaggio nel passato, tra il 1970 e il 1972, che si apre mostrando la vita di un piccolo villaggio e si chiude con l’annuncio del presidente-dittatore Ferdinand E. Marcos che impone la legge marziale.
Gli eventi misteriosi che rompono la quotidianità dei tanti protagonisti (mucche trovate squartate, lamenti che provengono dalla foresta, case date alle fiamme) non sono altro che presagi dell’Apocalisse politica che verrà di lì a poco.
Sublime nell’apparato visivo e spietato per la durezza delle situazioni messe in scena, Mula sa kung ano ang noon è un’esperienza ipnotica, magnetica, irresistibile nonostante la lunga durata (338 minuti).
Tutte le ossessioni tipiche dell’opera di Diaz sono presenti (le reazioni umane di fronte ai cataclismi, la relazione con la natura, il rapporto con la propria terra natale, la situazione storico-politica del paese) e per questo si può considerarla una vera summa poetica di tutto il suo cinema.
Diametralmente opposto il commento per Luc Besson che con Lucy, film d’apertura della kermesse, tocca uno dei punti più bassi della sua intera filmografia (ormai da diverso tempo in caduta libera).
La storia della trasformazione della protagonista, da corriere della droga a macchina da guerra, ha dell’imbarazzante: banale e poco credibile nella sceneggiatura, il film è anche vittima di effetti speciali pacchiani e di una grave indecisione di fondo nel registro da adottare. Besson non sa che strada prendere e costruisce un pessimo ibrido tra action movie e thriller fantascientifico. Persino il cast (da Scarlett Johansson a Morgan Freeman) è in pessima forma.
Non fa molto meglio Eugène Green con La Sapienza, inserito in concorso.
Girato con buona mano, il film “si sente molto forte”, puntando su riferimenti colti e su riflessioni generazionali-esistenziali di alto livello intellettuale: peccato che il risultato sia un esercizio di stile fine a se stesso, in cui ogni dialogo appare forzato e molto meno interessante e profondo di quanto possa sembrare o di quanto certa critica vorrebbe far credere.
Infine, una menzione per Perfidia del sassarese Bonifacio Angius, racconto di un padre anziano che cercherà di aiutare il figlio, trentacinquenne senza lavoro, dopo la morte della madre.
Nonostante qualche didascalismo di troppo e una messinscena piuttosto insipida, il film raggiunge buona parte dei suoi obiettivi, riflettendo con adeguato spessore su un complesso caso familiare ai tempi della crisi economica. Non mancano i difetti, ma il giovane regista (classe 1982) ha talento e col tempo si farà.