Nel 2011 il suo film allora in concorso a Locarno – Vol spécial – suscitò forti polemiche dopo che Paulo Branco, presidente della giuria, nella conferenza stampa di chiusura, lo definì “film fascista”. Fino a quel momento il film di Fernand Melgar era apparso un lavoro forte, coraggioso, capace di suscitare dibattito intorno al tema dell’accoglienza degli immigrati e delle norme che la regolano.
Sino alla vigilia della proclamazione dei vincitori era indicato tra i favoriti per il pardo d’oro. I detrattori – tra i quali si poneva anche un altro membro della giuria, Luca Guadagnino, con cui ebbi un breve colloquio qualche mese dopo, in occasione del Milano Film Festival, e che mi disse di condividere in toto le parole di Branco – motivavano il loro rifiuto del film con la sua supposta vicinanza nei confronti dei “carnefici”, ossia del governo svizzero responsabile del trattamento inumano dei richiedenti asilo. La polemica proseguì per qualche tempo, con varie prese di posizione pro-Melgar o pro-Branco.
Il regista svizzero è tornato a Locarno quest’anno con un film, L’abri, che prosegue nella stessa linea tematica ed espressiva di Vol spécial (e, prima ancora, de La forteresse, con i quali costituisce una sorta di trilogia – una trilogia in divenire, nel senso che non è stata pensata come tale, e che in futuro potrebbe proseguire perché, come ha detto lo stesso Melgar in conferenza stampa, ogni film fa nascere nuove domande: «Ogni volta che finisco un film sento il richiamo a un successivo: è il soggetto che mi sceglie»).
La forteresse si occupava dell’arrivo dei migranti in Svizzera: ci mostrava la vita dei richiedenti asilo in attesa di risposta. Vol spécial della loro partenza: il film era ambientato in uno dei centri in cui sono rinchiusi i migranti la cui richiesta d’asilo è stata respinta e che attendono il giorno del volo speciale che li riporterà in patria. L’abri si occupa di quel che c’è in mezzo, una sorta di “No man’s land”, per usare le parole del regista: ossia della vita in una città svizzera di alcuni migranti, tra i quali vi sono anche cittadini europei (in particolare spagnoli) che fuggono la crisi economica dei loro paesi.
Il film è ambientato in un rifugio per i migranti senza fissa dimora di Losanna. Melgar ci mostra come funziona la vita al suo interno e fuori (tra i migranti in attesa di essere ammessi – e talvolta respinti, per il raggiungimento della capienza massima stabilita dalle autorità): «Chi è dentro non sa quello che succede fuori, chi è fuori non sa quello che succede dentro. Io sono stato come una sorta di go-between che ha messo in comunicazione il ‘dentro’ e il ‘fuori’. Il mio cinema non apre porte, ma apre delle finestre: spero che riesca a sensibilizzare».
Questi film documentano le contraddizioni con cui gli stati democratici, e quindi i loro cittadini al momento del voto (è da ricordare che la Svizzera ha votato il 9 febbraio per un referendum che ha posto limitazioni all’immigrazione e alla libera circolazione delle persone), devono confrontarsi: in questo modo interrogano lo spettatore e lo rendono partecipe di un problema.
Come Melgar ha detto in conferenza stampa, i suoi film vogliono essere la “cattiva coscienza” del suo paese, vogliono turbarne la “tranquillità”: «I miei film pongono delle questioni, cercano di far riflettere i cittadini di un paese che amo. Sono un testimone di una realtà che viene tenuta nascosta e che si vuole dimenticare. Siamo un paese ricco, in cui vi è benessere, coesione sociale. Losanna è una città di sinistra: com’è possibile che al suo interno vivano questi fantasmi? I miei amici mi credono a metà: ma dove sono, mi chiedono?». La posizione di Melgar parte dalla fiducia nel suo paese: «Ci sono cose criticabili, ma questo paese ha una formidabile capacità di autocritica. Io credo nella mia società e nella sua capacità di cambiare. Nella costituzione svizzera c’è una frase magnifica, quella secondo cui ‘la forza di un popolo si commisura al benessere dei più deboli dei suoi membri’, ma oggi i primi dieci articoli della Costituzione svizzera non sono rispettati. Siamo però un paese democratico, nel quale la libertà di espressione esiste. Col mio film io voglio mostrare, non dimostrare. E in questo modo contribuire al processo democratico del mio paese».
Pur interessante e frutto di una concezione rigorosa e coerente del documentarismo, L’abri sembra però un lavoro meno incisivo dei precedenti, che dà talvolta l’impressione di cadere in formule ripetute, per esempio facendo emergere l’“umanità” degli immigrati in modi e forme che rischiano di sfociare un po’ nel cliché. Mentre Vol spécial riusciva a mettere a nudo le contraddizioni e i paradossi dell’“accoglienza” allestita da un paese democratico, L’abri sembra talvolta fermarsi a una generica compassione umanitaria, senza riuscire a cogliere i veri nodi del problema – la conclusione arriva improvvisa, senza che il film ne dia in qualche modo una spiegazione.
Che l’accoglienza dei migranti sia un tema caldo nell’odierna Svizzera è testimoniato dal fatto che anche il cinema destinato a un pubblico più "generalista” lo utilizza come spunto di partenza. Nella Piazza Grande di Locarno è stata presentata – con notevole successo (ha vinto il premio del pubblico) – anche una commedia, Schweizer Helden di Peter Luisi, storia di una dilettante del teatro che allestisce, assieme ad alcuni richiedenti asilo, il Guglielmo Tell di Schiller.
Il film procede secondo uno schema narrativo facile e con caratterizzazioni un po’ superficiali dei personaggi, ma ha l’accortezza di non far concludere tutto in un mieloso happy ending: la recita va a buon fine (e l’eroe di Schiller, interpretato da un migrante, ricorda agli spettatori i valori che sono alla base della comunità svizzera), ma le vicende di alcuni personaggi hanno esiti non positivi oppure rimangono problematicamente sospese.