È possibile andare da Josehph Goebbels a Kim Kardashian? Sì, è possibile...
Primo grado
Fortemente voluto da Joseph Goebbels, all’epoca Ministro della Propaganda della Germania nazista, Jud Süß (Süss l'ebreo, 1940) è passato alla storia per essere stato uno dei pilastri della propaganda anti-semita del Terzo Reich. Il film doveva essere la risposta anti-semita a Jew Süss di Lothar Mendes, adattamento fedele del romanzo di Lion Feuchtwanger, e uscito nelle sale inglesi nel 1934. Entrambi i film si rifanno alla storia di Joseph Süß Oppenheimer, banchiere del Duca di Württemberg a Stoccarda nel XVIII Secolo: ma se la versione di Mendes ci fa vedere il punto di vista di Oppenheimer, la versione voluta da Goebbels invece tira fuori tutti i peggiori stereotipi anti-semiti che hanno tristemente costellato la storia europea degli ultimi secoli. Gli ebrei vengono visti come fisicamente repellenti, paragonati a dei topi di fogna, avari, attaccati patologicamente al denaro; Süß ha la barba sporca, il naso a uncino, la voce stridula etc. L’obiettivo del film era quello di favorire l’accettazione della “soluzione finale” alla popolazione tedesca e il fatto che il film integrasse la propria ideologia anti-semita all’interno di una struttura narrativa coinvolgente lo rese molto più efficace dei documentari didattici anti-ebraici che andavano in voga durante il Terzo Reich. È da ricordare – soprattutto a quelli che ancora oggi sostengono che l’Italia abbia avuto un ruolo solo di secondo piano nelle persecuzioni anti-ebraiche degli anni Quaranta – che la più famosa opera anti-semita della storia del cinema ebbe la sua prima mondiale non in Germania, bensì in Italia, in un “fascistizzato” Festival di Venezia l’8 Settembre 1940 (in una di quelle edizioni che poi vennero considerato “non avvenute”).
Secondo grado
Regista di Jud Süß fu Veit Harlan: amico personale di Goebbels, venne messo a processo per “crimini contro l’umanità” proprio per il suo coinvolgimento nel film. Lui si discolpò (a guerra finita naturalmente) dicendo che venne costretto a girare Jud Süß solo per continuare a lavorare. A fronte anche delle comprovate ingerenze di Goebbels nella lavorazione della pellicola riuscì però a farsi assolvere da tutti i processi e negli anni Cinquanta ricominciò persino a girare film. Tuttavia è ormai abbastanza certo che il suo coinvolgimento con il Reich non fu solo estemporaneo. Nello stesso tempo sarebbe un grave errore ridurre Veit Harlan al regista anti-semita e di propaganda che comunque fu: tra la fine degli anni Trenta e gli anni Quaranta Harlan girò alcuni tra i melodrammi più belli del cinema dell’epoca: Kreutzersonate (1938, da Sonata a Kreutzer di Tolstoj), Die goldene Stadt (1942) ma soprattutto i due capolavori con Carl Raddatz e Kristina Söderbaum Immensee (1943) e Opfergang (1944), che formano quasi un dittico sul sacrificio e sull’impossibilità dell’amore. In Opfergang ad esempio, il protagonista Albrecht, anche se è sposato con Octavia, si innamora della vicina Äls Flodéen, che è in fin di vita per una malattia degenerativa. Durante un’epidemia di peste, nella quale Albrecht deve uscire per mettere in salvo la figlia, anche lui contrae una malattia. Costretto a letto proprio durante i giorni in cui la sua amante sta per andarsene, Albrecht comprende che non sarà in grado nemmeno di dirle addio. La moglie allora, decide, all’insaputa del marito, di compiere il più grande atto di sacrificio: si traveste da marito e va a dare dalla finestre l’ultimo saluto all’amante di lui. Tuttavia, come sempre nei film di Harlan, è proprio il gesto del sacrificio che cambia le carte in tavola e fa vacillare le proprie convinzioni amorose. Nonostante il suo coinvolgimento con il nazismo rese quasi impossibile la circolazione dei suoi film, Veit Harlan ebbe una sorta di sotterranea influenza nel cinema tedesco e non solo del dopoguerra. Basterebbero due aneddoti (che comunque non esaurirebbero la questione): suo figlio, Thomas, divenne un grande regista di estrema sinistra negli anni Settanta e Ottanta; mentre sua nipote, Christiane Susanne Harlan, finì per sposare… un certo Stanley Kubrick (che dichiarò più volte di essere un grande estimatore del cinema di Veit Harlan).
Terzo grado
Thomas Harlan amava dire che lui è stato costretto per tutta la vita a portarsi dietro un padre. Mentre le persone a un certo punto della loro vita i padri li abbandonano (anche soltanto quando diventano padri a loro volta), per lui non è stato così. Thomas, il cui lavoro ancora troppo in pochi conoscono, fu drammaturgo, intellettuale, scrittore, rivoluzionario di straordinario talento. Ma soprattutto fu un grandissimo regista. La sua vita farebbe impallidire l’immaginazione di qualunque romanziere: visse con Deleuze in Francia negli anni Cinquanta; negli anni Sessanta andò in Polonia per fare ricerche d’archivio sui campi di sterminio di Kulmhof, Sobibór, Bełżec e Treblinka e riuscì a portare alla luce un’enorme quantità di materiale sui crimini di guerra nazisti (su cui vennero costruiti diversi processi); fu amico di Giangiacomo Feltrinelli e miltante di Lotta Continua in Italia; in Portogallo divenne parte del comitato rivoluzionario della Rivoluzione dei Garofani mentre girava Torre Bela, uno dei suoi film più intensi e geniali; fece attività politica in Cile, Bolivia, negli Stati Uniti etc. Il suo film più interessante però – proprio perché fu quello nel quale mise a tema il rapporto con suo padre – fu probabilmente Wundenkanal (1984). Si tratta di un film dove un gruppo di rivoluzionari di estrema sinistra (mutuato sulla RAF tedesca) rapiscono un ex gerarca nazista e lo costringono con una serrata intervista-processo a confrontare i suoi crimini passati. Il problema è che il protagonista un gerarca nazista lo era stato davvero: si trattava di Alfred Filbert, capo dell’unità di sterminio Einsatzkommando 9 e Alto Ufficiale a capo della Polizia Politica delle SS in Lituania: uno che ha avuto una condanna per essere responsabile dell’uccisione di 11,449 ebrei…
Quarto grado
Il fatto che Alfred Filbert accettò di partecipare alle riprese di Wundenkanal lo ha reso immediatamente un esperimento assolutamente irripetibile di abbattimento del confine tra realtà e finzione (“Thomas conosceva il passato nazista troppo bene per lasciare a un attore qualunque di impersonare un ruolo che solo un vero professionista poteva essere in grado di fare così bene”). Il processo di creazione del film – il modo attraverso cui Thomas Harlan decide di inchiodare Filbert alle sue responsabilità di criminale di guerra – è importante tanto quanto il film stesso. Robert Kramer, grande regista politico americano (già autore di uno dei film più belli sul riflusso e il ripiegamento nel privato del movimento del ’68 americano, Milestones del 1975) viene chiamato a documentare il processo di creazione di Wundenkanal. Ne esce una sorta di film nel film, ma che forse è persino più importante del film d’origine nel sottolineare la posta in palio dell’operazione di Thomas Harlan. È così che nasce Notre Nazi (1985) un film dove viene fuori tutta la complessità emozionale dell’eredità del nazismo della Germania contemporanea, presa tra fascinazione e ribrezzo, tra giustificazionismo e discontinuità, tra severità e assoluzione. L’immagine di questo vecchio nazista, debole, gentile, apparentemente inoffensivo e tuttavia nostalgico, e la crudeltà priva di ogni empatia di Harlan mettono di fronte lo spettatore alla complessità della responsabilità politica (e a quello che forse a volte, è la necessità della violenza politica).
Quinto grado
Come Thomas Harlan, anche Robert Kramer fu un altro di quei cineasti politici che fece film in mezzo mondo, dal Venezuela al Vietnman, dalla Francia alla Germania. Non molti si ricordano del bel Doc’s Kingdom (1987) del suo periodo “portoghese” (prodotto da Paulo Branco), dove vediamo come protagonista un giovane Vincent Gallo, che interpreta un uomo del New Jersey che scopre, frugando tra le lettera della madre appena morta, di avere un padre, un uomo dal passato da attivista che ora fa il medico in Portogallo. Di quello che poi diventerà la carriera di Vincent Gallo si sa quasi tutto, dato che viene ampiamente riportato dai tabloid di mezzo mondo: dai suoi bizzarri endorsement per il partito Repubblicano, alla sua carriera da attore e da regista con Buffalo ’66 e The Brown Bunny, fino al suo tentativo di farsi una carriera come musicista. Il suo album d’esordio, When del 2001, si apre con una canzone dal titolo alquanto bizzarro: I Wrote This Song for the Girl Paris Hilton. Tuttavia come ammesso dallo stesso Gallo, i due all’epoca non si erano ancora mai incontrati. Finiranno però per lavorare insieme per il video di Honey Bunny, un concept video dove si vedono per 4 minuti diverse donne roteare su un pedana, e tra queste riconosciamo Paris Hilton.
Sesto grado
Paris Hilton, responsabile di aver reso famosa la figura della socialite – ovvero quelle celebrità che non sono famose per qualcosa ma solo per il fatto stesso di essere celebrità e di avere il tenore di vita della celebrità – difficilmente verrà ricordata per qualcosa in particolare. Suo, però, è senz’altro il merito di avere introdotto nell’immaginario collettivo la figura di Kim Kardashian, quella che secondo il «Time» è stata nel 2015 una delle celebrità più influenti del mondo. È stata infatti Paris che, iniziando a portarsi in giro per feste e discoteche la sua allora amica Kim (hanno successivamente litigato), ha dato inizio a quel processo interamente performativo di creazione della celebrità da se stessa. Nonostante il suo (mediocre) sextape, i suoi matrimoni lampo o il suo reality show (dove il tema è “lei stessa”), la celebrità più anziana del brand Kardashian non sarebbe spiegabile se prima non fosse passata Paris. Che dire… grazie?