Da una parte vecchi attori che celebrano se stessi, ironizzando sull’età e sulle “notti da leoni” a Las Vegas, per inaugurare il Festival sotto forma di Festa Mobile (Last Vegas: voto 4). Dall’altra un interprete in là con gli anni che illumina una storia triste e vera, ambientata in una fattoria sperduta nel Québec, nel film che ha aperto il concorso di Torino 31 (Le démantèlement: voto 7).
Strani e istruttivi incroci da Festival, già alla prima giornata del TFF 2013, aperto da una serata goliardica con Luciana Littizzetto sul palco, e sullo schermo un quartetto di “vecchie glorie” del calibro di Robert De Niro, Michael Douglas, Kevin Kline e Morgan Freeman. Poco da dire sul dimenticabilissimo Last Vegas di Jon Turteltaub, che azzecca qualche battuta qua e là, ma proprio non sa che farsene di questi quattro mostri sacri, infilati dentro un contesto (l‘addio al celibato a Las Vegas) che tutto appiattisce e tutti rincretinisce, a parte i rari momenti in cui l’istrionismo riesce a “sbavare” allegramente una sceneggiatura scritta col pilota automatico.
Intanto però ci eravamo imbattuti in Gabriel Arcand, magnifico protagonista del film di Sébastien Pilote, Le démantèlement (presentato già alla Semaine di Cannes), storia di un vecchio allevatore di pecore, della sua fattoria, della fatica e la solitudine, ma soprattutto del suo rapporto con le due figlie, che vede raramente e che sono tutto per lui. Quando una di loro si ritrova in difficoltà (economica), il buon Gaby decide di sacrificare ogni cosa, passato, presente e futuro, pur di aiutarla.
Arcand presta il suo volto espressivo e il suo stile di recitazione discreto, asciutto, trattenuto (quando scoppia in un pianto, il dolore diventa straziante) a una storia che si regge su un filo sottile, che è fatta soprattutto di ambiente e di atmosfera, e che anche quando eccede coi tramonti, la bellezza dei totali bucolici, il fascino del silenzio e del vuoto, lo fa per sottolineare il contrasto con ciò che accade dentro e intorno a lui, la contraddizione tra il legame con la sua terra (il suo destino?) e la consapevolezza di quanto quel legame gli abbia condizionato l’esistenza. Era libero davvero quando era “se stesso” (quando assomigliava a ciò che credeva di essere) o sarà libero quando avrà rinunciato a ciò che aveva deciso di essere fino a ieri, a costo di perdere tutto?
Se è vero che, sullo sfondo e nel sottotesto, fa capolino il Re Lear shakespeariano - che la figlia attrice, la più giovane, sta portando in scena (nei panni di Cordelia, arrivata a tragedia quasi compiuta, per chiarire come stanno davvero i rapporti in quella famiglia) - è anche vero che il film sta ben radicato nella realtà, quella di un presente in cui la crisi non risparmia nessuno e quella dell’eterna fatica di capire chi siamo e cosa vogliamo, cos’è che ci rende umani, qual è il nostro dovere in questa vita. Sembra la storia di una lenta eutanasia, resa più dolorosa dalla bellezza dei luoghi e dalla crudeltà della rinuncia, una lunga agonia che non lascia scampo. Eppure è anche qualcosa di più complesso e di più ambiguo, forse di più profondo, come ogni rinascita che ha sempre bisogno di una morte prima di accadere.