Il grande tema del cinema di Amir Naderi è l’ossessione («Se avete visto i miei film, sapete che spingo sempre all’estremo limite i miei personaggi e le loro ossessioni. Li metto alla prova e osservo in quale modo riescono a sopravvivere. E metto alla prova me stesso come regista, in qualsiasi tempo, qualsiasi luogo, qualsiasi ambiente.»).
Da Manhattan By Numbers a Marathon; da Sound Barrier, a Vegas, fino a Cut, e all’ultimo Monte, i lavori del regista iraniano, apolide per scelta («Dovevo tagliare i ponti. Me ne sono andato non per motivi politici ma per una scommessa personale: volevo compiere questo viaggio, cambiare la mia vita, correre tutti i rischi possibili e farcela nella big city»), sono scossi dalle tensioni dell’assillo, prossime all’autodistruzione. Autodistruzione che va però letta non in termini di resa ma come ultimo, estremo, disperato sussulto di eroica vitalità.
I protagonisti del suo cinema, a un passo dal baratro della disperazione, riescono a trovare (non potendo accettare arrendevolmente la loro condizione di sconfitti) una forza, un’energia, un’esaltazione eroica, titanica: ultimi e solitari eroi pronti a tendersi al di sopra del proprio destino, a sfidare l’insfidabile («Per rendere possibile qualcosa in qualsiasi tempo bisogna esser pronti a credere, aver pazienza e pagare con il proprio cuore. Mai rinunciare, finché non si giunga alla meta. Perché? Perché questo è il dono concesso all’essere umano: la sfida»). Come la famiglia di Monte (che ricorda quella di pescatori di L’uomo di Aran) impegnata, fin nell’intima misura del quotidiano, a sopravvivere tra fatiche, paure, fame. Un’esistenza aspra, ai limiti del sovrumano, vissuta tra livide e scabre rupi all’ombra di una montagna, odiosamta, avarissima di vita, che grava come un moloch inscalfibile.
Se la prima parte di Monte può essere contestualizzata storicamente (Tardo Medioevo), la seconda (quando esplode in tutta la sua la violenza il conflitto dell’uomo contro la natura) sprofonda in un tempo mitico, primordiale, che, in quanto tale, cancella ogni tratto culturale (la parola regredisce in grido ancestrale, il gesto in atto animale) e accetta di farsi teatro unicamente di tensioni epico-rappresentative (del resto la montagna, per dirla con parole di Pasolini, «disegna […] nel cielo l’ombra /di una esistenza più antica»).
Come il film di Flaherty anche Monte è un potente poema audiovisivo: non soltanto un grande affresco atmosferico, ma soprattutto una suite di musica concreta dove a fare da strumento solista è proprio la montagna: la vibrazione del tuono tellurico è ininterrotto leitmotiv che cresce e scende di frequenze senza però mai smettere di essere contrappunto al quadro.