Ema è una forza della natura. Ema vive, ama, danza e parla come le pare. Ema vuole una famiglia e allora se ne fa due, tre... quante vuole. Ema crea, distrugge e si prende tutto ciò di cui ha bisogno, anche quando forse non lo sa di cosa ha bisogno. Ema è il fuoco e l’acqua insieme, il sole e la luna, la notte e il giorno.
Ema è l’ottavo film di di Pablo Larraín e il primo ambientato ai nostri giorni. E non è un caso che ci abbia impiegato tanto, il regista cileno, per arrivare al contemporaneo. Perché spesso non è facile raccontare quello si vede mentre sta ancora succedendo. Come non è un caso che per provare a raccontare l'oggi scelga di osservarlo attraverso gli occhi di un personaggio che è tutti i personaggi insieme, che scivola oltre il proprio ruolo e diventa un mondo, un universo, «un paradigma» come la definisce Larraín stesso. Ovvero una maniera non solo per comprendere il mondo in cui viviamo, ma anche per provare a metterlo in discussione, a guardarlo da una prospettiva laterale e sfaccettata. A interpretarlo.
Ema «appartiene a una generazione che balla senza alcuna vergogna» dice il regista. Le danze sensuali per le strade e i tetti di Valparaíso, il sesso senza alcun tipo di restrizione morale o sociale, la percezione sfrenata e libera delle relazioni - e la mancanza di ogni forma di soggezione nei confronti delle istituzioni (scolastiche, sociali, familiari) ne sono la dimostrazione - rendono la protagonista metafora di un’espressione diversa e nuova del sé. Un modo di pensare e agire che mette in discussione non tanto il sistema inteso come sovrastruttura che regola un apparato, quanto l’idea che non esista un margine entro cui definirsi come individui. Alla generazione di Ema – in Cile ma non solo – appartiene la consapevolezza di cosa sia il proprio corpo, di come si usa e di cosa farci. E la danza è una forma (ri)appropriazione di un gesto che è connaturato al pensiero, allo sguardo, alla percezione. Persino il fuoco che brucia i simboli della civiltà e del progresso, che consuma l’altro corpo che sta nel film, quello statale, sembra qualcosa che costruisce, edifica, ripara. Un fuoco che anche quando avvolge un monumento (come in Nocturama di Bertrand Bonello, ma al contrario) diventa l’immagine di una nuova idea di futuro secondo la quale i simboli del passato li elimina non perché se ne sente minacciato, ma perché non ne ha più bisogno.
E allora anche il più tradizionale, inalienabile e identitario degli organi sociali, la famiglia, si deve riassettare sulle necessità e le idee di Ema, che è capace di essere madre, moglie, genitrice ma anche di rendere fecondi i corpi sterili. Ema non è solo capace di mettere al mondo ma anche di far rinascere chi le sta attorno. Chiunque entri in contatto con lei infatti finisce per farsi rapire completamente e rinascere, appunto. Perché Ema è soprattutto la personificazione di una femminilità estranea all’idea tradizionale, una femminilità nuova che si esprime senza condizionamenti o restrizioni, che non si esaurisce dentro alcuna definizione e nessuno sguardo, che non ha bisogno di affermarsi perché vive fuori dagli stereotipi e non ha bisogno di provare le esperienze perché è lei stessa a produrle. Una femminilità che nel corpo di Mariana di Girolamo diventa anche espressione di una carnalità che è sensuale senza essere provocante e che come nella danza esibisce il proprio erotismo con l’eleganza e la grazia della gestualità.
Perché in fondo è proprio attraverso la danza che germinano e prendono vita nuovi dispositivi di relazione, educazione e convivenza cui Ema dà corpo. E per la prima volta il cinema di Larraín sembra guardare a queste forme sociali con fiducia. Lasciando la consolante sensazione che parlare al presente sia molto più luminoso che farlo al passato.