Nel finale di Il figlio di Saul, il protagonista prossimo alla morte guarda negli occhi un bambino nel quale si è imbattuto durante la fuga dal campo di concentramento. Nel primo e unico controcampo del film, il bambino fissa a sua volta Saul e poi fugge dalla capanna in cui l’uomo si nasconde con altri compagni. Poco dopo, un soldato tedesco coglie il bambino di sorpresa, gli intima di fare silenzio e poi lo lascia andare. I rumori fuoricampo suggeriscono la fucilazione degli ebrei transfughi, mentre l’immagine resta su un campo di erba selvatica in cui il bambino corre solitario.
Quel bambino è il testimone della morte dell’idea stessa di umanità nella Shoah; è il simbolo di un’infanzia violentata; è l’uomo solitario che attraversa uno spazio reso desolato dalla guerra. Biondo e slanciato, ricorda l’Ivan di Tarkovskij o il Filora di Elem Klimov, e l’esistenza della breve e folgorante sequenza che lo vede protagonista – e prima ancora naturalmente l’esistenza di L’infanzia di Ivan e Va’ e vieni – rende superflue e ridondanti le due ore e quaranta minuti di The Painted Bird, che il regista ceco Václav Marhoul ha tratto dall’omonimo romanzo di Jerzy Kosinski (in Italia tradotto da Minimum Fax con il titolo L’uccello dipinto).
Non serve a molto che alla base ci sia per l’appunto una derivazione letteraria: di Kosinski c’è giusto la traccia narrativa, che segue la discesa agli inferi di un bambino ebreo dell’Europa dell’Est durante la guerra. Dopo la morte della signora che lo ha accolto in seguito alla probabile deportazione dei genitori, il bambino si allontana dalla casa in cui vive subendo sulla propria pelle – e contemporaneamente causando in modo inconsapevole – una serie di tragedie senza fine. Ovunque vada viene maltrattato, malmenato, rinchiuso, violentato, mentre chiunque prova ad accoglierlo, non per accudirlo ma per sfruttarne il lavoro (una guaritrice, un mugnaio, un allevatore di uccelli, un produttore di alcol…), patisce a sua volta un destino nefasto.
Il piccolo protagonista è un novello Oliver Twist tartassato dal destino e dalla Storia, subisce e non reagisce; eppure la messa in scena del suo calvario, nelle immagini in bianco e nero e nella regia curata ma scolastica, sempre alla ricerca di un senso estetico nell’orrore (campi lunghi, plongée, piani sequenza, ritmi dilatati), non riesce in nessun momento a generare un senso d’empatia o di commozione.
In mancanza di un universo morale di riferimento, la violenza raffigurata da The Painted Bird risulta eccessiva, gratuita, senza mai dare al film il valore di una composizione storica articolata. È evidente come Marhoul guardi al grande cinema europeo degli anni Sessanta, a come il suo modello sia il Wajda di Ceneri sulla grande armata, con il suo senso dell’epica e insieme con la capacità di raccontare tragedia individuale di un piccolo individuo nel tumulto del conflitto mondiale: ma al di là dei limiti della coproduzione internazionale (con le inutili comparsate di Harvey Keitel, Udo Kier, Stellan Skarsgård, Julian Sands), e preso atto del tentativo di rendere l’idea di un’Europa senza distinzioni linguistiche e geografiche facendo parlare gli interpreti in esperanto slavo, al film manca qualsiasi profondità.
Le immagini, invece di interpretare la parola, vi si sostituiscono, appesantendola; la rappresentazione dell’orrore è cosi diretta da risultare vuota, mai traumatica. E del dolore del piccolo protagonista allo spettatore nulla arriva, perché in realtà nulla può arrivare. È come se un film di Béla Tarr, con la sua idea di tempo dilatato e spazio infinto, fosse illustrato, spiegato per filo e per segno.
Come la metafora del titolo, per esempio, che nel film viene mostrata letteralmente (caso mai qualcuno non capisse che il protagonista è un estraneo come l’uccellino a cui vengono dipinte le ali per farlo uccidere da altri uccelli che non capiscono la sua diversità…), ma più che diventare il commovente emblema di una vita distrutta è solo un’inutile sottolineatura.