Il cinema di Paul Schrader è attraversato da figure solitarie e oppresse dai sensi di colpa, che quasi mai riescono a scendere a patti con le imperfezioni morali del mondo. Figure taciturne, chiuse in sé stesse, ascetiche nello stile di vita e nella predilezione per forme confessionali di scrittura, a partire dalla redazione di un diario dove far confluire le proprie impressioni. Il personaggio in questione, da sempre al centro dell'universo narrativo di Schrader, viene poi rivestito di una professione – in questo film il giocatore d'azzardo – di una forma visibile di austerità – qui il protagonista dorme in motel di terz'ordine – di ossessioni rivelatrici del suo disgusto per il mondo – i mobili delle stanze vengono puntualmente avvolti in panni bianchi, così da filtrare e depurare il suo contatto con gli oggetti – di una ragione che spieghi i suoi tormenti morali - in questo caso il suo coinvolgimento nelle torture dei prigionieri ad Abu Ghraib, per i quali ha scontato tre anni di prigione, e la consapevolezza dell'impunità di chi quelle torture ha ordinato e consentito.
Il fatto che Schrader abbia da giovane scritto un libro su Dreyer, Ozu e Bresson permette di tracciare con legittimità e disinvoltura estrema il tragitto che porta dalla sua cinefilia al suo cinema: in estrema sintesi, l'austerità e i conflitti morali rimandano ai film del cineasta danese, l'indole taciturna e solitaria dei personaggi a quelli di Bresson, il rigore della messa in scena allo stile del maestro giapponese. Quella del riconoscimento è però un'arma a doppio taglio, perché rischia sempre di consegnare i film di Schrader ad una tradizione alta e nobile del cinema d'autore, in virtù della quale alla singola opera viene poi automaticamente attribuito un attestato di qualità. Mi chiedo però se sia sufficiente riconoscere in un film, un film di Schrader, e in un film di Schrader un continuatore dell'eredità concettuale e filosofica di Bresson e Dreyer, per uscire soddisfatti dalla sala. E me lo chiedo perché The Card Counter è un film che non riesce a dare al protagonista e agli eventi lo spessore drammatico necessario a fare della vicenda qualcosa di più di un catalogo esemplare delle ossessioni del regista. L'universo del gioco d'azzardo è raccontato con precisione, le scene di violenza sui prigionieri sono stilisticamente originali, eppure il film rimane inerte, quasi schiacciato dal peso di una partitura che impone un tracciato narrativo ma dispensa il regista dalla necessità di renderlo appassionante, o almeno interessante.
Siamo piuttosto di fronte ad una forma confessionale di cinema, che – come per il diario – si alimenta delle proprie ossessioni e le coltiva a partire dalla consapevolezza che si tratta di una modalità intransitiva di scrittura. Come il personaggio, il film è chiuso in se stesso, prigioniero della propria solitudine.