Concorso

Bones and All di Luca Guadagnino

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Bones and All sembra vivere in una sorta di limbo: da una parte il solido pragmatismo americano (con la protagonista, la diciottenne antropofaga Maren, che simbolicamente percorre il territorio dalle punte estreme della costa Est al Midwest), dall’altra l’inclinazione marcatamente europea all’astrazione e all’intellettualizzazione. 

Alla base c’è il romanzo Fino all’osso di Camille DeAngelis, che Guadagnino contemporaneamente rispetta (nella struttura, pur con qualche significativa variazione) e stravolge: se nell’originale Maren definiva la propria identità dopo aver sostenuto tutta una serie di riti di passaggio  - in ciò ossequiando la tradizione nordamericana che vede in ogni conquista una forma di condizionamento della volontà -, qui invece costruisce il proprio Io sulla base di una scelta contemporaneamente di appartenenza e di emancipazione dal mondo («let’s try to be people»). In questo, il regista sembra vicino tanto ai romanzieri post-minimalisti degli anni Ottanta (decennio in cui il film è ambientato) quanto al lascito di molta cultura europea di fine Ottocento (si pensi a Conrad), cocciutamente romantica nel contrapporre la forza della natura e del paesaggio a un senso epico e tormentato di estraniamento dalla realtà.

Frammentata e rapsodica, piena di ellissi e di scarti in avanti, la vicenda di Maren inizia con l’abbandono da parte di un padre incapace di sopportarne la misteriosa natura e prosegue con la ricerca di una madre mai conosciuta, snodandosi attraverso una serie di episodi e incontri, come quelli con l’anziano e ambiguo Sully o con il giovane ed efebico Lee, che condivide il suo stesso segreto e di cui finisce per innamorarsi. Sullo sfondo ci sono gli Usa della Me Generation, dell’AIDS e dei baby boomer popolati da hoboes ed emarginati, ma il mondo esterno rimane esiliato nel fuoricampo e sfumato nei riverberi di una narrazione esemplare dove ogni linea di confine sembra annullarsi, lo spazio interiore si sviluppa di pari passo con i mutamenti di quello fisico (la fotografia di Arseni Khachaturan lavora impressionisticamente sulla luce per esaltare le forme e i volumi), la sessualità non è più un tabù da vincere ma uno strumento di liberazione, la natura e le sue leggi sono in perenne cambiamento (non vengono esplicitate le ragioni dei singolari appetiti dei protagonisti) al pari di ogni idea di morale, di giusto e sbagliato. 

E mentre la progressiva irruzione della realtà scioglie le fantasie della giovinezza (l’incontro con i due zotici o quello - memorabile - con la madre reclusa in manicomio), la tragedia smaschera ogni corteo di illusioni: quello di Maren non è solo un itinerario iniziatico alla scoperta di sé quanto una continua fuga in avanti nel terreno del ricordo (il “fantasma” della madre), del futuro (l’ideale agognato di libertà)  e dell’immagine (l’ultima inquadratura). Proprio per questo, per tornare all’horror Guadagnino adotta solo parzialmente il registro da fiaba nera di Suspiria (l’”orco cattivo” Sully) e invece ripensa al cuore e al nocciolo della miniserie We Are Who We Are, con i protagonisti che cercano - senza riuscirvi - di contenere i propri furori e i propri desideri. 

E lo fa con un film diseguale e formalista, certo, ma perfettamente in grado di raccontare un processo di crescita che trova compimento nell’incontro con l’Altro, usando il genere come immaginario condiviso prima che come chiave di lettura e restituendo un’idea di amore capace di trascendere i limiti della carne, fusione perfetta e definitiva tra il singolo e il mondo.