Tra gli autori e i modelli spesso citati da Kōji Fukada, il nome più importante è senza dubbio quello di Honoré de Balzac. E come l’autore della Commedia umana, anche il regista giapponese ambisce, film dopo film, a costruire un unico grande affresco composto da piccole miniature impressioniste che risuonano l’una nell’altra. Non solo per i rimandi interni (ad esempio, due dei protagonisti del suo film d’esordio Hospitalité compaiono fugacemente in Au revoir l’été, che per inciso è il suo capolavoro), quanto anche per il desiderio di raccontare le vicende di personaggi accomunati da un percorso di cambiamento interiore che si snoda attraverso le associazioni di gioia e dolore, i mascheramenti ossessivi della memoria, il programmatico confronto con i capricci del caso, il contatto con una realtà spesso e volentieri incomprensibile, le inibizioni e le paure, gli entusiasmi e gli slanci sovente repressi.
Quello di Kōji Fukada è un cinema che attraversa i generi (dalla commedia al thriller, dal marivaudage rohmeriano alla fantascienza distopico-ecologica del deludente Sayonara), sempre sul filo del sentimentalismo e spesso incentrato sullo scontro tra riguardo delle radici biologiche ed estraneità a un mondo gretto e prosaico.
Dopo la fantasociologia apocalittica del modesto The Man from Nowhere e la serie televisiva The Real Thing, Fukada torna a solcare territori a lui più congeniali, partendo dall’esplorazione del microcosmo familiare per costruire un melodramma dove l’elaborazione del lutto smaschera ipocrisie, tensioni ed egoismi. L’accidentale morte del figlioletto di sei anni Keita, avuto dal primo marito Park (senzatetto e sordomuto d'origine coreana), induce Taeko - insieme al secondo marito Jirō - a fare i conti con il progressivo isolamento provocato dall’impossibilità di contenere il dolore, comprenderne le ragioni, circoscriverlo ed esorcizzarlo. Alla perdita del figlio, i due protagonisti rispondono paradossalmente distaccandosi sempre di più.
Un percorso di separazione e riavvicinamento che la messinscena asseconda in maniera fin quasi didascalica: Jirō e Taeko vengono inizialmente collocati ai margini opposti dell’inquadratura per poi cessare di condividere gli stessi spazi (che non a caso pian piano si svuotano), allontanarsi reciprocamente (lui per incontrare una vecchia fiamma, lei per dare a Park quella protezione che non ha saputo invece offrire a Keita) e infine riconquistare quella prossimità che si erano invece negati. Il tema più caro all’autore, quello della solitudine, si configura quindi inevitabilmente in qualità di scelta: essa è contemporaneamente strumento di protezione di se stessi (come nel caso di Jirō, che ha sempre seppellito la paura dei propri sentimenti sotto una coltre di egoismo) o di espiazione delle proprie colpe (Taeko).
Ma la vera forza di tutto il cinema del regista è quella di saper rompere il meccanismo a volte fin troppo controllato della scrittura per aprirsi a ellissi e fratture improvvise, mentre la forma crea assonanze e rime interne, spesso stabilite dagli elementi (qui - come già in Au revoir l’été e The Man from Nowhere - è l’acqua ad assumere una funzione simbolica, strumento di morte e di rinascita). In Love Life l’intera costruzione poggia di fatto su un ventaglio ristretto di soluzioni formali (pochi primi piani, pochi movimenti di macchina, pochi stacchi di montaggio) non per ossequiare l’estetica post-minimalista di tanto cinema giapponese contemporaneo d’autore quanto per mettere a nudo fragilità e debolezze, con i silenzi che si sostituiscono alle parole, i rimpianti che prendono il posto delle confessioni, l’amore che lascia il posto alla pietà.
E se alla fine apre uno spiraglio a una possibile pacificazione, lo fa in modi tutt’altro che consolatori, dove gli istinti di fuga vengono riassorbiti all’interno di un nuovo - e non si sa quanto precario - equilibrio.