Vale la pena di soffermarsi sull’incipit di Ladri di biciclette (1948) di Vittorio De Sica. Non tanto per ragioni di prestigio del film, che è immenso e indiscutibile. Di incipit straordinari ce ne sarebbero tanti da citare, analizzare, condividere. La scelta di quello di Ladri di biciclette, a prima vista molto trasparente, invero estremamente elaborato, nasce da un’istanza urgente di attualità. Insomma, dalla constatazione a posteriori di come quel grande capolavoro della storia del cinema avesse colto nel segno di un neorealismo di lunga durata, affacciato a un presente senza neppure più le biciclette.
L’idea di saldare una situazione corale a una singolare era ricorrente all’interno dell’intero film. Ma ciò che colpisce è la capacità di esplicitarla e renderla operativa e determinante da subito, mimetizzandola in un impianto molto accurato in cui l’impressione di realtà, o piuttosto la rassegnazione allo status quo generale, è talmente forte da richiedere un supplemento di preoccupazione, mediante il ricorso a un caso particolare.
La perfetta «strategia dell’attenzione», come la chiamerebbe Giuseppe Ferrara, viene innescata sin dalla sequenza inaugurale, che dopo aver ospitato i titoli di testa in sovraimpressione e la musica, siglando una condizione di disagio sociale, provvede nel prosieguo a introdurre i dialoghi, il primo dei personaggi principali, quell’Antonio Ricci chiamato a gran voce, e ad avviare l’azione individuale.
Il dono del film è di rendere molto semplice un discorso complesso. Di complesso soprattutto c’è l’atteggiamento dello spettatore di allora (e di oggi) che al cinema cerca una distrazione dai problemi concreti e pertanto è portato a sottovalutare la realtà di ogni giorno, accontentandosi di conoscerla direttamente o indirettamente fin troppo bene. Il punto è che quel film intende(va) ricordare allo spettatore che quanto già era sotto i suoi occhi (ora magari su schermi di tutte le dimensioni onnipresenti) a proposito del mondo esterno doveva trovare un corrispettivo oggettivo nello spazio virtuale della rappresentazione filmica, canale privilegiato di un’informazione partecipata e diffusa.
Ma per far ciò non poteva il film di De Sica limitarsi a puntare al problema di tutti, mostrare responsabilmente la disoccupazione nella sua (nota) dimensione collettiva. Occorre(va) farlo semmai in concomitanza con lo scorrere dei titoli di testa, in assenza di suoni, dialoghi e rumori effettivi (infatti coperti dalla partitura musicale). Poi però bisogna(va) spostare il problema per acutizzarlo sul piano personale. Cioè la disoccupazione doveva riguardare una sola persona, uno di cui da quel momento in quanto spettatori ci sarebbe importato: Antonio Ricci.
Finché musica e titoli ci mostrano un tram affollato che giunge tra le case popolari del quartiere Tufello di Roma, l’impatto della disoccupazione rientra nel dato statistico. Se insomma dal tram scendono molti passeggeri per raggrupparsi sulla scalinata ai piedi di un ufficio di collocamento tutto rischia di rientrare nella norma, spiacevole, dolente, certo, ma all’ordine del giorno.
Lo strappo avviene nel momento in cui un avvenimento imprevisto genera una controtendenza, circoscritta. In un contesto di lavoro che manca, ecco che per uno a sorpresa il lavoro salta fuori. Non un povero diavolo qualsiasi, bensì l’unico che ha già smesso di sperare, che se ne sta in disparte, sconsolato. Bisogna addirittura chiamarlo per nome e cognome, ripetutamente, perché il diretto interessato si dia una mossa e si capaciti della singolarità della circostanza. Quindi dargli la (buona) notizia dell’assegnazione del posto da attacchino municipale. Una possibilità eccezionale, inverosimile, ma così contesa dagli altri disoccupati, da indurre l’arrendevole Antonio Ricci a dimostrarsi appena un po’ più deciso. Finalmente, a queste condizioni cinematografiche, lo spettatore si interessa alla sua storia.
Un lavoro c’è, a condizione che anche ci sia una bicicletta. Quindi la bicicletta diventa sinonimo di lavoro. Un feticcio più che un mezzo. Il rischio disoccupazione altamente probabile. Perciò quando inevitabilmente la bicicletta viene rubata, quando viene riaffermata la disoccupazione come fattore individuale/collettivo, lo spettatore non riesce più a pensare a una soluzione realistica, ma percepisce – attraverso il dramma autoreferenziale di tale Antonio Ricci – quanto già le prime immagini del film, tra musica e titoli di testa, avevano sottolineato. Solo che ora tutto ciò succede al personaggio, e quindi succede allo spettatore in prima (interposta) persona, che con lui si è immedesimato. Il non poter recuperare la bicicletta, la sua bicicletta, e nemmeno una bicicletta purchessia, altrui, rubata, riporta il film al punto o meglio al dato di partenza. E lo spettatore a un grado filmico più elevato di consapevolezza.
Bisogna proprio dire che di questi tempi l’incipit di Ladri di biciclette insegna molto. Con una differenza: che di mezzi di locomozione e di dispositivi di comunicazione ce ne sono fin troppi, stavolta, in circolazione o sottomano. Ma la condizione socio-antropologica dei disoccupati, o degli spettatori-vicari occupati o disoccupati, i quali all’occorrenza non cercano lavoro perché non c'è o cercano quei lavori che non ci sono, resta la stessa, passiva. Quella inveterata dell’Antonio Ricci del 1948. In più narcotizzata dall’illusione di aver sotto controllo la realtà in ogni istante, digitalmente. Mentre in sala continuano ad essere sfornati film italiani senza soluzioni di continuità o di svago o di «neorealismo senza biciclette», per dirla con Carmelo Bene.