La conseguenza della stasi – autentico fulcro del saggio critico di Paul Schrader, Il trascendente nel cinema – esige che lo stile trascendentale non scaturisca obbligatoriamente da nessuna delle fasi che lo identificano. I personaggi sono fotografati nella propria quotidianità, e sovente banalità, prima di attraversare la fase che li conduce alla separazione (reale o potenziale) dall’ambiente in cui sono inseriti. La scissione culmina in uno specifico episodio, giacché le figure al centro si misurano con un ambito non congeniale alla loro realtà: tale stadio è indispensabile per la fase finale, la stasi, corrispondente all’estasi dei personaggi. La visione cristallizzata della vita trascende la scissione e, anziché risolverla, si spinge oltre essa.
L’intera filmografia del cineasta di Grand Rapids è segnata dalla prassi su cui si fonda la sua tesi e dalle tre fasi che vi hanno luogo, e in questa prospettiva risulta più facile interpretare Hardcore, seconda prova registica dell'allora trentaduenne Schrader dopo l’incoraggiante debutto con Tuta blu.
Fin dal segmento in apertura paiono convivere contemporaneamente elementi al centro delle opposte, e amatissime, filmografie di Ozu e Bresson. Il motore dell’azione è costituito da un atto che colpisce una famiglia, e più in generale la comunità di cui essa fa parte, e a condurla è un personaggio alle prese con un milieu antipodico rispetto al proprio, costretto, senza alcun desiderio, a confrontarcisi.
Il film è un rifacimento piuttosto atipico del fordiano Sentieri selvaggi, benché la vera matrice intertestuale risieda in Crepuscolo a Tokyo, appunto di Ozu: ma al di là dei pur presenti echi cinematografici, quella di Schrader è soprattutto un’opera, dichiaratamente personale, che mette in luce le origini calviniste dell’autore.
Sono i titoli di testa – in cui il rosso del titolo del film, e il nome del suo protagonista, violento, si staglia sul bianco della neve che ammanta lo scenario – a mostrare i luoghi veri in cui il cineasta è nato, la Grand Rapids in cui è ambientata la prima parte dell’opera, filmata nella sua autenticità. Accompagnata con ironia dolce-amara dalle note di Precious Memories, interpretata da Susan Raye, la cinepresa inquadra la cittadina in una fredda giornata invernale, totalmente immersa nell'atmosfera natalizia, attraverso una serie di campi lunghi e totali che mostrano paesaggi imbiancati, viottoli e strade innevate, insegne, costruzioni in stile olandese, ragazzini che s'inerpicano su collinette con gli slittini o spalano la neve, finché l’obiettivo non stringe su alcuni edifici dedicati al culto. Fotografia e inquadrature evocano tanto la pittura paesaggistica americana, Hopper su tutti, ma anche fiamminga, e preludono di una ventina d’anni i fotogrammi iniziali di Affliction, pure nel solco di certa evocazione hopperiana.
In quei luoghi che di Hardcore contraddistinguono la prima parte, come una sorta di back to the roots, Schrader non fa mistero di un sentimento di profonda nostalgia. Proprio nell’incipit il regista utilizza un buon numero di famigliari, amici e compagni di college: nell’episodio della riunione familiare fa capolino la madre di Paul ed è un amico di questi a intonare al pianoforte Away in a Manger, un vecchio canto del collegio protestante. Autentici sono alcuni brevi episodi vissuti dall’autore in prima persona, trasposti in modo pressoché identico: episodi, negli intenti di Schrader, tesi a mettere a fuoco la rigorosa comunità calvinista nei propri dogmi e fervori, nelle sue restrizioni e ingenuità; si fa preciso riferimento a raduni religiosi che si tengono realmente, e addirittura figura un'immagine in cui alcuni membri della comunità discutono al tavolo di cucina di questioni teologiche, a proposito del peccato imperdonabile e della grazia.
Schrader dirige ciò che da più tempo conosce e, fra le sue opere da regista, Hardcore è la più esplicitamente autobiografica. Non mancano, infatti, indizi che rinviano all’attività agricola della famiglia del cineasta: in una sequenza, un ragazzino confida a un altro di preferire un’attività part-time di lava-macchine, pur di non lavorare nella coltivazione di sedani dello zio, la stessa per cui prosperavano i genitori di Schrader quando lui aveva l’età del ragazzino nel film. Né è assente una critica alla televisione e ai suoi fautori: uno dei famigliari del protagonista Jake (George C. Scott) assiste insieme alla famiglia a uno spettacolo televisivo, prima di alzarsi sdegnato per spegnere l’apparecchio, brontolando che a fare televisione sono soprattutto ex ragazzi della comunità calvinista, che preferiscono abbandonare la formazione e andare incontro a ciò che questa condanna.
Schrader medesimo ha spiegato come, durante l’avvento della televisione, le famiglie osservanti sovrapponessero le ore dedicate al catechismo alle trasmissioni seguite dai ragazzi, a mo' di ricatto morale; la posizione in apparenza agnostica del regista, conquistata gradualmente durante la giovinezza, è esemplificata da una locuzione del citato famigliare del protagonista, espressa con sarcastica rassegnazione (“Televisione... Tanto, se non la compri, loro se ne vanno in qualche altra casa a vederla!”), sì da potersi leggere come una piccola vendetta personale. Secondo l’opinione di Schrader, i provinciali che sfondano a Hollywood pompano televisione nelle case delle proprie famiglie, sovente allo scopo di colpevolizzarle.
La sequenza si carica di significati particolari: di lì a poco, con la scusa di una partecipazione a un convegno teologico in California insieme alla cugina, la figlia di Jake, Kristen, scapperà di casa per dedicarsi a una delle attività più esecrabili agli occhi di un calvinista osservante, più ancora della televisione. La fuga della ragazza non può non avere margini autobiografici, da individuarsi nella drastica scelta che ha indotto Schrader ad allontanarsi dalla comunità natale per calarsi in ambiti da questa considerati destabilizzanti. L’inattesa fuga di Kristen come gesto di sfida e rivolta è la proiezione della scelta di Schrader di ribellarsi alla volontà paterna e, sebbene mostrata in pochissimi momenti, la ragazza non è che la proiezione mimetica del regista: soltanto dopo un amaro, rabbioso sfogo nei confronti del padre, cioè dopo lo scioglimento di una tensione covata per troppo a lungo, Kristen si lascia convincere a tornare alla famiglia e alla comunità, per riprendere una vita chissà se felice e sino a quanto.
L’inattesa fuga di Kristen è necessario evento cardine perché abbia luogo la fase della scissione: nell’apporre l’elemento-fuga sullo sfondo di una ricorrenza tradizionale e sacra come il Natale, quasi si facesse il verso a uno degli usuali prodotti al saccarosio che tripudiano la famiglia e i buoni sentimenti, Schrader non vuole (sol)tanto prendersi gioco del concetto di armonia familiare, bensì abbatterlo, corrodendo il duplice fattore famiglia-comunità dall’interno, confondendone i codici, scompaginando l’ordine attraverso una serie di unità narrative riferibili a un quid sinistro. La normalità quieta e pariforme della comunità di Grand Rapids, intrisa di mistico fervore, è segnata da un momento all’altro come l’esistenza stessa, ordinata e preordinata, del protagonista.
Se l’immagine della famiglia è posta in discussione, le visioni che dell’ambiente pornografico vengono offerte nella seconda parte non lasciano spazio a infingimenti o ad illusioni di umanità. E l'epilogo, in cui Kristen si riunisce al padre, rimescola il mazzo celebrando la vittoria di quelle tradizionali (e oppressive) virtù americane cui lo spettatore, per l’intera durata del film, assiste con diffidenza e sospetti non minori di quelli riservati alla sfera del porno. In questo senso, Hardcore detiene un atteggiamento morale estremista e bizzarro, giacché le uniche possibilità di scelta al centro risiedono in un’onestà refrattaria e irritante (quella di Jake) o in un’estrema depravazione (quella dei pornografi). Una terza via non è concessa.
Pure, se l’atteggiamento rigido e restrittivo di Jake fa camminare il personaggio sul filo della sgradevolezza, poco a poco si fa largo l’idea che quanto si vede si attenga al suo punto di vista: Schrader non sceglie un rifiuto sistematico dei tradizionali valori americani, più semplicemente se ne distacca per poi tornarvi e accettarli. Non c'è proposito di bozzettismo, in Hardcore, dove tutto ha luogo nella più neutra sincerità.
Lo sguardo, permeato di candore, che traspare dall'incipit è un sotterfugio come la maschera che Jake deve indossare per ritrovare Kristen o, per divertire alcuni bambini, simulare mentre si appresta a tagliare il tacchino: la reale nudità dell'alveo domestico, custodito dalla tenuta dei Van Dorn, ha luogo solo in finale di partita una volta avvenuto il ribaltamento, lungo una scia di allucinata, estrema violenza. Prima che ciò avvenga, e il sangue la macchi all'improvviso, la neve paralizza Grand Rapids facendone un'inattingibile isola: un mondo a parte incurante della tragedia. Lasciamo che nevichi...