È uno degli incipit più celebri della storia del cinema. Inutile ricordarlo. Ancora più inutile descriverlo, a meno che non si voglia iniziare il pezzo con una sempre comoda ècfrasi. Lo fece Altman in un'altra celebre prima sequenza, quella de I protagonisti, rendendo iperbolica la durata e nostalgico il ricordo. Ma era Altman e poteva farlo, soprattutto perché ne stava replicando la leggendaria fluidità nel cortile di uno degli Studios.
Da sempre, un emblema dello splendore spettacolare hollywoodiano, un prodigio di stile in flessuosa continuità e una lezione raffinata di suspense: un timer in piano ravvicinato, una bomba sotto un'auto che aggiorna il precetto hitchcockiano dell'ordigno sotto il tavolo, un percorso in parallelo lungo il confine tra Stati Uniti e Messico in compagnia di individui minacciati dalla bomba e protagonisti del film. Due sposini. Uno dei due piuttosto inverosimile: un Charlton Heston annerito per sembrare un credibile investigatore messicano, Vargas. Lei americana, Janet Leigh, qualche anno prima che una decina di coltellate sotto la doccia la rendessero indimenticabile. Si baciano. È il loro primo bacio. Si pensa a un'esplosione di sensi e invece: BOOOM! È l'auto con la bomba a esplodere. Appena oltre il confine. Dentro gli Stati Uniti, ma poco importa. È la linea che conta. La linea che separa un al di qua e un al di là. Un confine geografico solo per contingenza allegorica, in realtà una demarcazione etica porosa tra il lecito e l'illecito. Tra il fine che giustifica i mezzi e i mezzi che non giungono al fine.
Ma questo indimenticato piano-sequenza è anche la triste storia di un conflitto che si origina proprio dall'allegoria del confine e si infrange contro la sorda noncuranza della Universal. Che dopo la poco incoraggiante sneak preview alterò il montaggio voluto da Welles e - soprattutto - sovrappose una coinvolgente partitura di percussioni latine e ardite striature di ottoni jazz composta da Henry Mancini. Passando tra l'altro alla Storia. Ma prima che vi passasse, Welles inviò ai produttori un accorato promemoria di 58 pagine in cui si augurava che il commento musicale posto in apertura fosse solo temporaneo. Non era solo la difesa della sua autonomia d'artista, quanto la disperazione nel vedere il significato del suo film intimamente travisato.
La scelta di Welles, infatti, risiedeva in un apparente realismo nutrito dal contrasto tra il mambo trasmesso dalla radio diffusa in strada e il furioso rock‘n’roll proposto dall’auto con la bomba nel portabagagli. Mambo e rock‘n’roll protagonisti di una chiara reversibilità sonora tra Messico e Stati Uniti, un andirivieni di ritmi chicani e ondulate cadenze urbane che seguivano il flusso del movimento dell'auto rispetto alla macchina da presa, con la ferma intenzione di delineare l'indice di lettura dell'intero film.
Perché, come è noto, L’infernale Quinlan è solo secondariamente un mystery sulla ricerca di un assassino. Che non a caso si scopre a metà film. Più propriamente, Quinlan è un conte moral narrato lungo una linea di confine metaforica in cui gli States e il Messico, il Bene e il Male, la verità e la menzogna, la legalità e l’arbitrio e le interazioni tra i personaggi appaiono elementi osmotici che acquistano valore esclusivamente in funzione prospettica.
Tutto il film nella prima sequenza. Facile affermare che la Universal non ci fosse arrivata. Più propriamente, si scontrarono due opposte idee di cinema, la magniloquenza hollywoodiana e uno strenuo impeto autoriale destinato a soccombere. Un altro confine. Sicuramente meno permeabile degli altri. Quasi una cortina di ferro. Propendere per una versione o per l'altra è solo uno stato mentale.