Un paesaggio di monti e sterpaglia, in campo lungo si avvicina un reggimento.
Un rapido zoom ci svela su un’altura un trombettiere ferito che arranca. Nascosti dalle rocce dei cecchini si apprestano a colpire la colonna in marcia. Il trombettiere suona l’allarme, i cecchini gli sparano. Ma lui non muore: suona imperterrito la tromba, enfatizza i colpi ricevuti, si lancia nella parodia di un assolo free jazz, allunga i tempi in maniera parossistica attirando su di sé i proiettili dell’intero commando. Non si arresta neanche quando il regista intima disperato il “cut”: siamo sul set di uno dei tanti kolossal a sfondo coloniale che hanno fatto la fortuna del cinema bellico e l’uomo è un aspirante attore venuto dall’India, forse per aumentare di verità le pretese storiche del film da girare.
Ma questo è solo l’inizio: il sabotaggio involontario di Hrundi V. Bakshi – questo il nome dell’umile comparsa – prevede anche un assalto con pugnale e orologio subacqueo non proprio adatto a un film ambientato nel 1878 e la distruzione completa del set causata dalla carica esplosiva che l’incapace attore fa detonare per allacciarsi una scarpa. Anche il regista scoppia: Bakshi deve essere espulso per sempre dal mondo del cinema. «You get off of my set and get out of my picture. Off! Out! You’re through! You’re washed up! You’re finished! I’ll see to it you never make another movie again!» gli urla il regista; «Does that include television, sir?» risponde umile, impassibile Bakshi.
Ma il suo nome viene annotato per sbaglio non su una lista di proscrizione – da persona non grata – bensì sull’elenco di invitati a una festa esclusiva del jet-set cinematografico dove l’omino continuerà la sua opera di demolizione.
L’inizio di Hollywood Party è folgorante, come del resto lo è tutto il film nella sua cristallina geometria comica di azioni e reazioni, di cause ed effetti. Si racconta la distruzione al lavoro, si svela la forza anarchica capace di inceppare un intero establishment mettendola nelle mani di un personaggio mite e sorridente, quasi sempre muto di fronte alle fluviali parole di un mondo narcisista e logorroico che improvvisamente, guardandosi allo specchio, vede le rughe che gli impiastricciano il volto.
Hollywood Party è il film più consapevolmente ribelle di Blake Edwards – assieme al suo gemello amarissimo, di tredici anni successivo, S.O.B. – in cui l’autore del languido e celebratissimo Colazione da Tiffany mette da parte trucchi e belletti per corrodere con l’acido il salotto buono della cricca di Hollywood. A suo modo Hrundi V. Bakshi è un terrorista situazionista: inquina ruscelli – quelli ornamentali della villa – con il fango, trasforma i dipinti decorativi che ornano i cessi dei vip in pastrocchi astratti, devasta cene, attiva statue che pisciano su tutto e su tutti, stringe mani trasmettendo come un virus l’olezzo di caviale. È un soldato involontario dell’immaginazione al potere (il film esce, guarda caso, ad aprile ’68: un mese prima del Maggio francese), un Monsieur Hulot imbottito di tritolo.
Hollywood Party usa la maschera quasi imperturbabile del suo protagonista – un monumentale Peter Sellers, in mistico equilibrio tra genio e idiozia – per ritrovare il gesto liberatorio dello slapstick, ma anche l’anima più caustica dello screwball, da troppo tempo narcotizzata dalle commedie edulcorate formato famiglia. Hrundi V. Bakshi, del resto, voleva solo essere invitato alle feste ma aveva il misterioso potere di farle fallire. Altro che Jep Gambardella…