“Il tempo è un fiume che viene dal nostro passato” si legge su un calendario che viene girato nei primi minuti di La forma dell’acqua. Eliza, la protagonista, una donna muta timida e gentile, abita in un piccolo ma accogliente appartamento situato al di sopra di un cinema. Nella sala semivuota proiettano The Story of Ruth, il film di Henry Koster del 1960, e alla tv, quando Eliza siede sul divano a casa del suo vicino Giles, passa la serie Mr Ed, che avrebbe debuttato l’anno successivo, o si vedono immagini degli scontri razziali negli stati del sud: la datazione è incerta, ma quella che Del Toro fornisce con pochi e precisi elementi è un’idea vaga e insieme ben riconoscibile di passato, inteso soprattutto come sentimento.
L’acqua c’entra, c’entra tantissimo, a cominciare dalle perdite che dall’appartamento di Eliza arrivano al cinema, e prima ancora da quel fiume che scorre dal nostro passato. Nelle sue acque si galleggia tranquilli, addirittura si respira, come succede ad Eliza alla fine del film. Di fronte ai musical che la donna guarda sempre alla tv la sua reazione è simile: è serena, rassicurata. Sullo schermo in bianco e nero, nostalgia nella nostalgia, Carmen Miranda, Alice Faye e Betsy Grable evocano il sogno collettivo di un cinema fuori dal tempo e svincolato dalla Storia e dalle storie di ogni spettatore. E quando Eliza sogna, sogna di far parte di quegli stessi musical, sogna di danzare come Ginger Rogers con Fred Astaire, già richiamato quando, di fronte alla Creatura, usa una scopa come compagna….
Ma nonostante la finzione evidente e voluta del film, e nonostante la finzione nella finzione di una coreografia da musical anni '30 a portata di mano, e nonostante, ancora, l’artificiosità di un mondo fatato che giustamente ha fatto infuriare Jean-Pierre Jeunet, Del Toro racconta l’immaginazione di seconda, terza e quarta mano della sua protagonista (e l’immaginario da cui prende vita) come parte di un passato condiviso e non, invece, come un patrimonio digerito, riassorbito, rimastico, fatto a pezzi da ogni possibile forma di visione mediata, e dunque impossibile da vivere in maniera innocente.
Oggi non c’è alcun luogo in cui fuggire di fronte a un film, non più. E, nonostante i tempi oscuri, nemmeno una realtà da trascendere come Del Toro fa con la Guerra fredda, evocando i suoi fantasmi più noti, la fobia sovietica e il mostro della laguna. L’idea di un’alterità possibile dello schermo cinematografico è forse ancora romantica, utile per avviare un bambino al piacere della visione, ma non ha nessuna base per essere evocata in quanto scelta militante, in quanto modello di una possibile rinascita del cinema come spettacolo popolare.
Come si fa, per dire, a credere all’evasione nell’universo luminoso e bianco e nero del sogno di Eliza, dopo aver visto il modo in cui i Coen rimettono in scena il musical in Ave, Cesare!, mostrando la pesantezza delle scenografia, la fatica del movimento, la distruzione di uno spazio scenico, svelando la pura economia di un’industria dell’intrattenimento? Certo, quello messo a nudo dai Coen è il musical energico e fisico di Gene Kelly, mentre quello che Del Toro richiama attraverso la mediazione della cultura televisiva anni '50 è il musical leggiadro di Astaire, dove la leggerezza era anch’essa strutturale. Ma nell’universo ideale di La forma dell’acqua, il sogno, per quanto ultramediato, è invece sempre rappresentato come autentico, mai svelato nella sua inevitabile doppiezza.
Pensiamo, ancora, al lavoro di Zadie Smith, nel suo romanzo Swing Time, sui medesimi riferimenti cinematografici di Del Toro: Astaire-Rogers, Cappello a cilindro, Incontriamoci a St. Louis, Follie di Broadway, È sempre bel tempo. Nell’ottica di due giovani danzatrici che guardano i musical come successione di numeri da riprodurre, la danza, e non la sua evocazione, diventa un’operazione puramente coreografica, fuori dal cinema e dalla sua storia travisata.
«A quel punto», scrive la narratrice e protagonista, «[Tracey] cominciava ad analizzare il balletto, cosa che io non riuscivo a fare, mentre lei vedeva tutto, le piume di struzzo che sfioravano il pavimento, i muscoli deboli nella schiena di Ginger, il modo brusco con cui Fred doveva rialzarla dalla posizione supina, interrompendo il flusso, rovinando la linea. Notava la cosa più importante di tutte, cioè la lezione di danza all’interno del balletto. Con Fred e Ginger si può sempre vedere la lezione di danza. In un certo senso, la lezione di danza è il balletto. Lui non la guarda con amore, nemmeno con il falso amore dei film. La guarda come la signorina Isabel guardava noi: non dimenticarti di x, per favore tieni a mente y, adesso alza il braccio, abbassa la gamba, gira, inarca, inchino».
E non è secondario che le due ragazze, negli anni ’80 in cui crescono, possano guardare mille volte le stesse sequenze di Cappello a cilindro andando avanti e indietro con la VHS («Eravamo la prima generazione ad avere in casa un mezzo per mandare avanti e indietro la realtà»), rovinando il nastro a furia di passaggi. E che la narratrice del romanzo, ormai cresciuta, possa recuperare su YouTube i filmati visti fino alla nausea da ragazzina, partecipando a qull'opera di vivisezione della storia del cinema nella frammentarietà del contemporaneo. Zadie Smith riempie il suo libro di titoli di film, di nomi di attori e ballerini, rilegge, da scrittrice nera sia i musical hollywoodiani sia il moonwalk di Michael Jackson, trovando addirittura un precedente ai passi di Jacko in una danza di ballerini neri nel musical Alì Babà va in città: ma l’uso che fa della memoria in Swing Time è un uso puramente funzionale, non fuori dalla Storia, ma dentro la voracità del tempo che passa e stravolge la percezione del passato.
Come si legge in un altro libro dello scorso anno, Le otto montagne di Paolo Cognetti, che nulla ha con La forma dell’acqua e Swing Time, ma che ragiona ugualmente sul patrimonio della memoria (e che usa la medesima metafora del fiume, solo in senso opposto), il passato è per l’appunto il fiume che scorre a valle, quello che scorre in giù, da cui non ci si può aspettare più nulla.
«– Guarda quel torrente, lo vedi? – disse [mio padre]. – Facciamo finta che l’acqua sia il tempo che scorre. Se qui dove siamo noi è il presente, da quale parte pensi che sia il futuro? Ci pensai. Questa sembrava facile. Diedi la risposta piú ovvia: – Il futuro è dove va l’acqua, giú per di là. – Sbagliato, – decretò mio padre. – Per fortuna – (…) Il passato è a valle, il futuro a monte».
La forma dell’acqua non è solo un film che viene dal passato. È un film già passato, da cui nulla non ci si può aspettare nulla.