Ad Asghar Farhadi piacciono le parole, i discorsi infiniti, gli arrovellamenti verbali di personaggi che provano a difendersi di fronte agli attacchi, sempre a parole, di altri personaggi… Si parla nei suoi film, si parla tanto, si parla anche troppo, ma solo parlando si costruisce il racconto e lo si scioglie, con le parole che cementificano le relazioni personali e al tempo stesso le frantumano per poi ricostruirle.
In più, nel Passato c’è un tema nuovo, lo sradicamento, con un iraniano che torna a Parigi per firmare il divorzio dalla moglie francese. Nel momento in cui entra nella casa della donna, l’uomo si trova invischiato in una storia che non gli appartiene, che proviene dal passato di vite non sue: eppure parla, ascolta, chiede, risponde, sbatte e ricomincia, sempre incerto sul dipanarsi di una trama via via più complessa a ogni avvallamento di filo.
Dietro quella barba e quegli occhi persiani non può che esserci lo stesso Farhadi: sradicato in un cinema, quello francese, che non gli appartiene, estenuato dalle parole che lui stesso alimenta, ma convinto che solo le parole possano sciogliere una trama che quelle stesse parole hanno ingarbugliato.
Nel Passato le parole cessano di sbattere alla fine, quando di fronte all’unico personaggio silenzioso (una donna in coma), il solo a cui la parola servirebbe per distruggere un castello di carte di supposizioni, ogni cosa tace. Tacciono i personaggi e tace anche il cinema, che dopo due ore di serrato découpage classico si riposa in un piano sequenza mobile ed estatico, impotente forse, ma finalmente placato.
Tutto questo mi fa pensare a un altro scrittore sradicato, il bosniaco Aleksandar Hemon, autore dell’autobiografico Il libro della mie vite, in cui l’autore racconta il tortuoso ma inevitabile dipanarsi della sua trama personale: la giovinezza a Sarajevo ai tempi del socialismo, l’avvicinarsi della guerra civile, la partenza per Chicago per un mese di viaggio studio e l’impossibilità di tornare a casa per via del più lungo assedio dell’era moderna; e poi, ancora, una volta costretto a vivere negli Stati Uniti, la condizione di sradicato, la solitudine, l’assenza di una voce interna, l’impossibilità di scrivere in bosniaco e l’incapacità, per diverso tempo, di scrivere in inglese.
E quando Hemon racconta dei suoi lunghi pomeriggi passati a giocare a scacchi in un bar di Chicago, insieme ad altri stranieri sradicati come lui, ecco come descrive la scenata di un anziano signore di origine assira, Peter, a un gruppo di liceali che frantumano il silenzio del locale con le loro vacue, inutili conversazioni:
«Peter […] improvvisamente esplose: – La finite di parlare – urlò agli studenti. – State parlando da un’ora per non dire niente. State zitti! Zitti! – Loro si zittirono, terrorizzati. Lo sfogo di Peter, per quanto scioccante, ai miei occhi era assolutamente sensato: non solo deplorava lo spreco di parole, ma detestava la lassitudine morale con cui venivano sprecate. Per lui, che aveva sempre piantato in gola l’ossicino dello sradicamento, era immorale parlare di niente quando c’era una perenne penuria di parole per tutte le atrocità che accadevano nel mondo. Era meglio tacere piuttosto che dire ciò che non aveva importanza. Occorreva proteggere dalle aggressioni della parole sprecate quel luogo silenzioso che avevamo in noi, dove tutti i pezzi potevano essere disposti secondo una logica, dove gli antagonisti si conformavano alle regole, dove anche se eri a corto di possibilità potevi ancora esserci un modo per trasformare la sconfitta in vittoria. Gli studenti, va da sé, non potevano neanche lontanamente comprendere la straziante immensità dello spazio interiore di Peter. Vaccinati contro la carenza di parole, non avevano accesso all’indicibile».
(Aleksandar Hemon, Il libro delle mie vite, Einaudi 2013, pp. 135-6, trad. a cura di Maurizia Balmelli)
È paradossale, ma io credo che il chiassoso, logorroico cinema di Farhadi non faccia altro che cercare il silenzio, quel luogo che sa di avere e che solo può essere raggiunto con la parola.