Curiosamente, disseminate in varie province della Cina, esistono copie identiche di alcuni dei luoghi più famosi d’Europa, tra cui Londra, Parigi e Venezia. È la punta dell’iceberg di un fenomeno largamente diffuso e chiamato mimica architetturale (o copycat architecture), per cui non soltanto singoli edifici, ma anche interi quartieri o città vengono ricostruiti per dare vita a repliche iperrealistiche, ma dislocate nello spazio, dei luoghi-simbolo dell’Occidente. The Real Thing, il documentario in Realtà Virtuale realizzato nel 2018 da Benoit Felici e Mathias Chelebourg, è incentrato su alcuni di queste città specchio e le racconta attraverso un medium che, per eccellenza, punta a far sentire l’osservatore o l’osservatrice come se fosse direttamente presente sulla scena. La volontà degli autori sembra essere sì di suscitare, tramite una costruzione mediatica, un’esperienza estremamente vivida, ma nello stesso tempo di “ingannare” ulteriormente questa dimensione iperrealistica mostrando dei luoghi che a loro volta non sono che repliche.
Cosa significa raccontare una città copiata nella forma simbolica del panorama immersivo? Con i suoi tre gradi di libertà (3 DOF) The Real Thing non permette allo spettatore o alla spettatrice di muoversi nello spazio. Eppure, le immagini fotografiche a 360°, visionabili anche in 4k, ambientalizzano le riprese documentarie offrendo allo sguardo la possibilità di estendersi oltre i confini del frame cinematografico. Esplorando con lo sguardo questi panorami la sensazione familiare di meraviglia viene subito affiancata da un secondo sentimento di sconforto e straniamento, già teorizzato da Freud e chiamato perturbante. Ciò che, per lo sguardo occidentale, viene percepito come un paesaggio abituale diventa improvvisamente estraneo. Questo perché i monumenti spiccano in un contesto del tutto insolito, che tradisce la loro natura finzionale: l’inconfondibile sagoma della Tour Eiffel è al centro di una pista da corsa e incorniciata da varie batterie di condomini; le strette fondamenta della Serenissima sono attraversate da sfreccianti scooter; Tower Bridge – soprannominato ‘Mirror’ bridge dagli abitanti del posto – è al cuore di un parco tematico adibito a location di shooting fotografici per coppie o giovani sposi.
Per lo spettatore o la spettatrice occidentali, gettare uno sguardo in un parco cittadino dove una donna stende i propri panni sullo sfondo di una fake Tour Eiffel non è soltanto una visione straniante dettata dal fatto che un simile scenario si discosta dal vissuto culturale europeo – che invece ci restituisce l’immagine di un monumento protetto da strutture adibite alla gestione dei grandi flussi turistici. Quello che per un attimo può sembrare il trompe-l’œil di un monumento francese viene rapidamente ricompreso come una sua copia, e lo stesso vale per le immagini in Realtà Virtuale che compongono il film: la sensazione di estrema vividezza e trasparenza data dai caschi, se per un istante può essere scambiata per “the real thing”, cioè per una vera vista della città, viene rapidamente ricondotta al mondo della finzione per immagini. Il documentario The Real Thing, scegliendo come soggetto un simulacro, cioè una copia capace di rimettere in discussione il suo rapporto con l’originale, finisce per accentuare questa dinamica già presente in ogni esperienza VR, costituendo una sorta di strana mise en abîme tra medium e messaggio, in cui il film visibilizza il medium e viceversa.
La scelta della Realtà Virtuale, infatti, rafforza il valore della costruzione narrativa, che risulta ben in linea con gli aspetti formali che la strutturano, ma non solo. Nel suo complesso, infatti, il documentario finisce per effettuare un rovesciamento paradossale, trasformando la stessa esperienza di visione in un’esperienza di turismo speculare a quella che gli abitanti delle fake city possono provare visitando l’Europa. La deriva è completa: quali differenze ci sono, dunque, tra la turistificazione della nostra Venezia, le cui calli traboccano di camere in azione, e la “città-set fotografico” che emula perfettamente Londra?
Sul fondo della valle del perturbante giace però una confortane verità, e cioè che a discapito dell’iperrealismo dei luoghi e delle immagini che li rappresentano è pur sempre possibile rintracciare un elemento che resiste alla vorticosa confusione tra le città e le loro repliche, e tra le immagini e le cose stesse. Lo si può ritrovare, forse, proprio nella scena che chiude il documentario: in una piazza che sembra, ma non è, la Place du Trocadéro, un gruppo di signore si esercitano in esercizi di ballo collettivo all’aria aperta, un’attività molto diffusa come pratica di socialità e sport.
Il fatto che questa scena sia restituita in maniera così situata e protratta nel tempo dà molto da pensare, e forse non soltanto perché, come recita il voiceover, al di là dello stile architettonico è l’“elemento umano” a fare la differenza; quanto, piuttosto, perché ci riporta all’importanza del contesto in cui un’architettura, per quanto identica ad un’altra, viene collocata. Gli spazi, così come le immagini iperrealistiche dei caschi, non emergono sole e isolate, ma sono da ricondurre al contesto in cui emergono. La replica della Tour Eiffel che vediamo in molti momenti del documentario, e che è protagonista della sua ultima scena, non si distingue dal suo originale per una mancanza di perfezione nella sua riproduzione: a renderla unica è il contesto in cui si trova, la storia che l’ha portata ad essere lì e gli elementi con cui è messa costantemente in relazione. Così, costruire delle fedeli repliche di monumenti fedelmente copiati è un gioco di “scatole cinesi” che ci fa fare una giravolta, proprio come le signore dell’ultima scena, e ci ricorda, in danza, che una copia perfetta non esiste.
The Real Thing (16:23’) è diretto da Benoit Felici e Mathias Chelebourg. Realizzato in coproduzione da Artline Films, DVGroup e Arte France, è visibile gratuitamente sulla piattaforma Within.