Il mondo, alla fine del cinema. Non sappiamo se Stray Dogs sarà veramente l’ultimo film di Tsai Ming-liang, come più volte dichiarato. Non sappiamo neppure se le parole, per quanto ricercate, elaborate, inseguite, siano all’altezza del difficile compito di rapportarsi con un’opera simile. Come si può raccontare qualcosa che sta lentamente svanendo, in un fluire lento di immagini e corpi che scivolano via, esattamente come l’acqua che filtra attraverso le pareti della casa dei protagonisti?
Il cinema di Tsai ormai lo conosciamo tutti, da almeno vent'anni a questa parte: è sempre rimasto invariato, con le sue strade, i suoi corridoi, i suoi spazi che sembrano soffocare i personaggi entro i confini di una contemporaneità che schiaccia l’individuo e lo abbandona a se stesso. Eterni campi fissi su un mondo attraverso il quale il regista ridefinisce il concetto stesso di immagine e trasforma lo spettatore in una componente splendidamente attiva: nel suo cinema, i nostri occhi sono obbligati a vedere, e quindi capire. Per cercare di venire a patti con il Tempo, e con sua sorella, la Morte.
E Stray Dogs, com’era lecito aspettarsi, porta tutto alle estreme conseguenze.
Non è importante fermarsi a riflettere sui dettagli della trama (se mai ce ne sia stata una, sin dai tempi di Rebels of the Neon God), sulla componente onirica della pellicola (i tre personaggi femminili sono la stessa donna?), sulle possibili interpretazioni narrative volte solamente a ridurre il film in un contenitore di gesti che si susseguono sempre uguali.
Il cinema di Tsai Ming-liang è un universo filmico che ha sempre avuto se stesso come unico referente, e chi non lo ha mai accettato, stavolta lo lasci pure perdere. Perché Stray Dogs è l’INLAND EMPIRE di Tsai, la rappresentazione ultima di un conglomerato di vite e di luoghi nei quali, al termine, non rimarrà più nessuno in grado di vedere. Se il suo è sempre stato un cinema di fantasmi, oggi anche questi lasciano il posto ad altro, a quel vuoto che spetta a noi riempire, e vivere, attraverso la nostra presenza.
I corpi trasmigrano nel fuori campo, il suono svanisce lentamente, l’immagine perdura fino alla dissolvenza in nero e ai titoli di coda: se il pianto finale di Yang Kuei-mei in Vive l’amour sembrava il punto di non ritorno di un’estetica, oggi Tsai Ming-liang riesce a superare se stesso, regalandoci una visione che non appartiene più a questo mondo. E’ un cinema alieno, assolutamente e incredibilmente impossibile da contenere nei limiti della forma film; un universo etereo in cui l’Uomo continua a vagare per le stesse strade, a piangere le stesse lacrime, a ripetere gli stessi gesti quotidiani fino alla fine. Ma questa volta la fine è davvero tale, per tutti.