C’è ancora una cinematografia, nel Mediterraneo, che a dispetto della situazione politico-economica in cui versa il paese, o forse a causa di questa, si può dire goda di sana e robusta costituzione: quella greca. Da Yorgos Lanthimos che fu a Venezia con Alpeis, ad Athina Tsangari, che sempre al Lido presentò Attenberg, a Elina Psicou, che col suo Antonis Paraskevas sta girando i festival europei (e sarà in concorso a Milano), a Alexandros Avranas, pluripremiato a Salonicco nel 2008 con la sua opera prima Without, che qui è in concorso con Miss Violence. Una cinematografia che fa i conti con la realtà abbandonando volentieri le griglie del realismo, che attraverso storie piccole apre squarci illuminanti sui problemi di politica e morale, che reinventa lo stile attingendo alle radici ancestrali della propria cultura e alla modernità con economia di mezzi ed esattezza dello sguardo. (Esattamente come quella nostrana, n’est-ce pas?)
Una tavolata da festa triste, una famiglia le cui coordinate relazionali non sono affatto chiare (e si capirà perché), un balletto démodé, aprono il film, in un appartamento piccoloborghese e grigio, dove tutti sono raccolti intorno ad Angeliki, per festeggiare il suo undicesimo compleanno. La macchina da presa asseconda il movimento della bambina verso il balcone, sguardo in camera interrogativo (o accusatore?), mentre alle sue spalle la danza continua, ed ecco un volo di tre piani, per finire sul vialetto col cranio fracassato.
Partono i titoli di testa, quasi smaccatamente ispirati a quelli di Caché. L’apparente calma con cui il nucleo reagisce all’accaduto è il coperchio di una polveriera, bisogna solo trovare la miccia, le cui ragioni si dischiudono nel progredire della vicenda: perché la famiglia parla di un incidente e tira avanti come se nulla fosse successo? Cosa nascondono, cosa buttano nei sacchi neri, il padre (Themis Panou), la giovane Eleni (Eleni Roussinou), l’adolescente Myrto? Cosa soggioga i piccoli Alkmini e Filippos nella conta degli alberi, nelle punizioni reciproche? Che cosa sa, e non dice, la senescente madre (Reni Pittaki), che pazientemente assembla puzzle di dubbio gusto, come una parca col filo del tempo, come Aracne con il suo telaio?
Ispirata a un fatto di cronaca vera avvenuto in Germania, la storia narrata da Avranas si offre al consueto ampio spettro di livelli di lettura: da quella psicologica e sociologica, abbracciata in conferenza stampa dall’autore, a quella politico-allegorica, vivacemente disconosciuta dallo stesso (ma non staremo mica a credergli per davvero?). E dunque, se da un lato potremo liberamente inorridire di fronte all’emergere delle atrocità domestiche, rincorrere le traiettorie ambigue del desiderio incestuoso e della violenza patriarcale, sentire a nostra volta il peso delle responsabilità, intrappolati da sguardi che sfiorano continuamente l’obiettivo, è d’altro canto una congettura che non ci fa sentire affatto in colpa individuare una metafora della Grecia odierna in quella teoria di porte aperte, chiuse, divelte; nell’esercizio di prostituzione coatta imposto dal padre alle figlie; negli assistenti sociali, esecutori di ordini, che controllano la casa in un piano-sequenza impietoso, caricando l’attenzione su dettagli talvolta demenziali (l’odore del sapone), ciechi come gli ispettori UE che non sanno da che angolazione gestire la crisi; nel dirimpettaio che, guarda un po’, nell’attesa di scaricare la propria voglia su Eleni, ascolta Toto Cutugno a tutto volume. Buongiorno, Italia: la storia prosegue, decidi tu come, dietro una porta chiusa.