Rick Ostermann, regista tedesco, fa il suo esordio (un ottimo esordio) a Venezia nella sezione Orizzonti con Wolfskinder, film che racconta la storia (rimossa) dei "bambini lupo", costretti a nascondersi nei boschi, nella Prussia orientale del 1946, per sfuggire ai soldati sovietici.
Come sei entrato in contatto con la storia dei Wolfskinder?
Innanzitutto per ragioni di background famigliare: mia madre è originaria di quella che una volta chiamavamo Prussia orientale, e durante l’ultimo anno della Seconda Guerra dovette fuggire con tutta la famiglia e un fratello piccolo, e riparare in quella che attualmente è la Germania settentrionale. Dunque ero interessato alla storia della mia famiglia e cominciai a leggere dei libri: in queste letture incrociai i Wolfskinder e mi dissi: "Questo sì che è interessante, tutto quello che è capitato a questi bambini!".
È semantica, ma credo che la distinzione sia interessante: la parola tedesca Wolfskinder indica “i cuccioli di lupo” o bambini che si comportano come lupi?
Li si definisce così perché questi bambini vivono nella foresta, come lupi, come un piccolo branco.
Dunque, tu perdi il lupo Alpha praticamente all’inizio del film
Sì, la madre!
A proposito di questo, correggimi se sbaglio, ma ho l’impressione che la biologia, l’etologia, abbiano un ruolo fondamentale nell’organizzazione del plot: Hans legge in almeno due occasioni dei passi de L’origine della specie di Darwin. Però, da buon italiano, se penso a bambini nella Germania del 1946, il pensiero va a Germania Anno zero di Rossellini, un film in cui il piccolo protagonista fa una scelta estrema, anti-evoluzionistica, il suicidio, di fronte all’assenza di Dio. I tuoi bambini sembrano muoversi in un universo dove Dio non sembra il problema, regrediti a uno stato di “vita di natura”.
Quando stavo girando il film ho chiesto a un amico, che si occupa di psicologia, come si comportano i bambini che soffrono un trauma di sradicamento come i Wolfskinder, e lui mi ha risposto che si comportano esattamente come avevo cominciato a impostare i personaggi: perdono la parola, smettono di comunicare e si rifugiano nella natura, instaurando con essa una nuova relazione. Per quello che riguarda il rapporto con Dio, questi bambini non l’hanno completamente perso: sicuramente la loro urgenza è sopravvivere, procacciarsi da mangiare. Per esempio, ho lasciato una traccia di relazione con Dio nella scena in cui, appena morta la madre, Hans muove silenziosamente le labbra: sta pregando, ho pensato, "Hans, dì una preghiera per tua madre", una minuscola traccia di sopravvivenza del sacro.
Un aspetto che evidenzia la traccia “darwiniana”, etologica, della tua storia, a mio parere, è la vicenda di Fritzchen, il fratello più piccolo, la differenza del suo comportamento rispetto a Hans, la rinuncia all’identità e alle radici per poter sopravvivere. È stato comune questo tipo di comportamento, in quelle zone, dopo la Seconda Guerra Mondiale?
Sì. Era un espediente per sopravvivere. Quando i bambini, come Fritzchen, andavano da questi contadini e dichiaravano "sono tedesco ma sono pronto a essere lituano" ottenevano cibo, un letto dove dormire e potevano vivere là, quindi si trattava di una questione di vita o di morte: "sopravviverò, se sarò lituano". Hans, al contrario dice: "sono tedesco, sono abbastanza forte ora da poter proseguire senza negare le mie origini". E' una questione di identità, e di radici.
Come pensi che reagirà il pubblico tedesco al tuo film, a questa discorso su identità e “nazione”?
È in corso un lento cambiamento di prospettiva in Germania: è stato trasmesso, nel marzo scorso, un importante film per la televisione, una produzione molto grossa: Unsere Mütter, unsere Väter, che è basato sulle storie di ragazzi e ragazze che, all’epoca della guerra, avevano 20-25 anni, che ha reso evidente come la mia generazione ha cominciato ad avere una diversa angolazione da cui guardare al passato.
Pensi che il pubblico tedesco conosca in maniera sufficiente gli argomenti che tratti nel tuo film?
Non è così comune nemmeno in Germania, la conoscenza dei Wolfskinder: quando dico che ho fatto un film su di loro c’è chi crede che io abbia girato un film su persone ipertricotiche, o un film di genere. Allora gli spiego che si tratta di bambini che cercano di sopravvivere da soli nella foresta. Spero che il film possa aprire loro la mente, almeno un po’.
Credi che ci sia ancora difficoltà ad integrare i Wolfskinder di seconda o terza generazione? Che una conoscenza di questo problema aiuti le nuove generazioni a essere cittadini migliori?
Certo, devi comprendere a fondo la tua Storia per lavorare a un futuro migliore. Spero che la gente pensi questo, non solo riguardo ciò che accadde là, ai Wolfskinder, ma in tutto il mondo: quello che ho ripetuto spesso, di recente, è che i Wolfskinder sono un esempio di quello che le guerre creano, in tutto il mondo, in Siria, in Africa, ovunque, i bambini sono le vittime principali della guerra. Per questo la mia speranza è che il mio film sia d’esempio in tutto il mondo.
Per quel che riguarda la location in cui avete girato, coincide coi luoghi della storia o avete dovuto girare altrove?
Le sequenze iniziali sono davvero girate nei territori che furono Prussia Orientale, il posto dove vive la madre, la chiesa… Quando, durante l’attraversamento del fiume, i due fratelli si perdono di vista, lì stanno attraversando il confine e entrano in Lituania, come anticipato dalla madre. Anche se alcune parti del territorio lituano attuale, a loro volta, sono state tedesche, e per esempio abbiamo usato una stazione ferroviaria che esiste ancora lì. Ma tutto il resto è effettivamente Lituania, e ho fermamente voluto girare lì.
Come viene recepita dalla popolazione lituana la ricostruzione di questo capitolo della storia?
Sono molto aperti a riguardo. In effetti abbiamo un co-produttore lituano, che è stato molto felice di partecipare a quest’impresa, e in fondo si tratta di una storia per metà tedesca e per metà lituana: così abbiamo un team di produzione per metà tedesco e per metà lituano; tutti i bambini e la madre sono tedeschi, il resto del cast è lituano. A tutti gli effetti è un film prodotto da due nazioni che tocca entrambe in ugual misura, e questo è molto bello. C’è stata solo una certa attenzione riguardo la maniera in cui raccontavamo l’incontro coi partigiani nel bosco, perché ancora oggi i lituani hanno un grandissimo rispetto per i propri partigiani. E dunque, quando ho anticipato che nella sceneggiatura un giovane partigiano cercava di toccare la ragazza più grande, mi è stato detto "non vorrai farlo per davvero", e in fondo me l’aspettavo, ma me la sono cavata, spiegando che lui si comporta così non certo per ragioni politiche, ma semplicemente in quanto uomo che ha vissuto per mesi nella foresta da solo, e lui è maschio, lei è femmina, fine della storia.
Credo che nel film poi l’intervento dell’altro partigiano che lo ferma, attutisca la situazione, direi che l’integrità morale dei partigiani è salvaguardata.
Sì, certo. Un altro fenomeno interessante è che molti collaboratori lituani, quando dicevano in famiglia di lavorare a un film sui Wolfskinder si sentivano rispondere che lo zio, il nonno, il vicino avevano delle storie da raccontare a riguardo. Così è cominciato un dialogo continuo e proficuo, sul set. Andavamo in location e i contadini ci dicevano cose come "ah, state lavorando a un film sui Wolfskinder, uno di loro abita ancora nel villaggio qui accanto".
Hai lavorato quasi esclusivamente con bambini, è stato un casting difficile?
Sono entrato in contatto con un coach di bambini attori quattro o cinque anni fa, e lui mi mandò delle foto, e cominciammo prestissimo a farci un’idea. Ma poi abbiamo cominciato delle sedute di casting vero e proprio. Levin, che interpreta Hans, venne alla prima. Forse è addirittura stato il primo a entrare, e lo ricordo molto bene perché si presentò con un taglio alla Justin Bieber e non si vedeva praticamente il viso, era timidissimo e gli dissi "dobbiamo pensarci". Allora provinammo altri bambini, ma quando il direttore del cast mi propose di dare a Levin una seconda chance, lo facemmo tornare, provammo alcune scene, gli facemmo tagliare i capelli, e finalmente, quando cominciammo a girare, avevamo esattamente l’Hans che avevo immaginato scrivendo la sceneggiatura, con il corpo un po’ troppo grande, l’andatura goffa e un po’ fuori controllo.
Una domanda sulle fonti artistiche o fotografiche del lavoro con il tuo direttore della fotografia: l’impressione che evitiate l’effetto pittoricistico, ma che ci sia comunque una profonda ricerca visiva.
Ho un grande direttore della fotografia (Leah Striker) e ci siamo interrogati a lungo su quale stile adottare per far risaltare la natura, sempre in primo piano nel film. La sua risposta fu: Ansel Adams. Come lui abbiamo usato solo due ottiche, è stato un’autentica fonte di ispirazione.
Una domanda un po’ impertinente: ci sono comunque alcuni elementi, nella struttura del plot, che potrebbero far pensare che la storia stia prendendo la piega di una fiaba, ovviamente tragica: la madre morente, l’amuleto, la missione, anche se poi si viene sempre ricondotti alla realtà.
In verità non era assolutamente mia intenzione introdurre elementi di fiaba in questa storia, perché volevo evidenziare realisticamente la durezza di quanto accade a quei bambini. Credo, certo, che la struttura, i due fratelli, il viaggio, la separazione, sia piuttosto solida, e io avevo bisogno di una base robusta su cui costruire la storia. Ora, forse, posso permettermi di fare una fiaba.