Se c’è qualcosa di certo riguardo il cinema di Sion Sono, è che non ci si può mai aspettare come sarà il suo prossimo film. Del resto il regista giapponese, da sempre personalità istrionica e anticonformista legata più ai circuiti festivalieri che ai canali di distribuzione tradizionale, ha fatto del cinema un personale terreno di sperimentazione, riflessione e sfogo per le proprie ossessioni e irrequietezze. Dimostrando, con l’inarrestabile prolificità che lo caratterizza, quanto gli sia necessario e impellente dar forma, attraverso il mezzo cinematografico, alla propria idea di mondo.
Con Why Don’t You Play in Hell?, Sono non smentisce di essere artista difficilmente classificabile o definibile. Dopo la dolente riflessione sul disastro di Fukushima proposta in The Land of Hope (2012), torna al cinema istintivo e passionale a cui si è affezionato da qualche anno a questa parte. In questa storia – quella di alcuni giovani che vogliono fare cinema e che dopo una lunga serie di insuccessi riescono a essere ingaggiati da una famiglia della Yakuza il cui boss tenta di lanciare la figlia nel modo dello spettacolo – è piena di elementi tipici del cinema di Sono: a cominciare dai personaggi femminili irrequieti e morbosi, dalla passione per il gore e lo splatter portato a estremi grotteschi, arrivando sino al gusto per la fusione e la commistione fra i generi e per il citazionismo più esasperato. Gli omaggi al Kill Bill di Tarantino, per esempio, sono talmente evidenti da diventare quasi sfacciati.
Anche se il film è, prima di tutto, a ben guardare, un affettuoso atto d’amore verso la settima arte, una sorta di irrazionale canto funebre, lacrimoso e nostalgico, sulla fine di un’epoca e su un cinema che sembra irrimediabilmente sorpassato. Non soltanto quello del 35 mm e dei cineclub o dei b-movies sui samurai e sui lottatori di kung-fu, ma anche quello, poetico, del regista in erba che ama la professione ancora più dell’arte stessa e che, sembra dire Sono, (attraverso il personaggio del giovane filmmaker che ha molto di autobiografico) ha perso molto dell’incanto e della magia di cui si è sempre rivestito. Un incanto e una magia (magari tinta di nero) di cui Sono dimostra invece di essere rimasto un convinto e più che mai appassionato credente.