Tra i capannoni del Nord-est, due ragazze architettano un piano per ricattare un uomo che ha una relazione a pagamento con una di loro. L’altra però è innamorata di un ragazzo albanese e a poco a poco si allontana da un mondo in cui le relazioni si sfaldano e soprattutto dominano “i schèi”.
La sociologia del Nord-est (in breve: le distorsioni di uno sviluppo economico avvenuto ai danni dell'ambiente, del paesaggio e delle stesse relazioni sociali, la sensazione di assediamento del territorio e il rifiuto dello straniero, la pratica formalistica della religione) è stata sfondo di diversi film negli ultimi anni (da Mazzacurati a Segre). In Piccola patria diventa argomento centrale.
Il problema è che fare sciologia col cinema, in modo così esplicito, come fa Rossetto, utilizzarla cioè non come sfondo ma come motore della storia, significa correre un grosso rischio: quello di trasformare la ricerca della “rappresentatività” di quanto mostrato in semplicismo, di estremizzare i caratteri sino alla caricatura e di ridurre la vicenda a un'illustrazione di (pre)giudizi.
In effetti, il film di Rossetto non sembra sfuggire a questi rischi. Il film fonde due anime. Quella più propriamente narrativa, che si sviluppa attraverso quadri che rappresentano in modo esasperato – vedi la sottolineatura delle tare sessuali dei personaggi o della violenza latente che domina le relazioni – i caratteri che abbiamo indicato. E quella più da videoartista o da documentarista (che si esplicita in brevi inserti in cui il tempo viene come sospeso, per osservare ad esempio i due amanti che giocano tra i prati o l’aspetto assunto dall’ambiente). La prima anima appare spesso eccessivamente dimostrativa, mentre la seconda è talvolta suggestiva (certe riprese aeree sulle trasformazioni del paesaggio) ma non riesce a dare una forma convincente a un film che sembra nascere più dall’invettiva che dal desiderio di comprendere una società.