Le università, o meglio quel microcosmo tipicamente americano che sono i campus universitari, sono un presenza fissa del cinema made in USA. Nel filone giovanilistico, poi, sono addirittura un must. Tuttavia è raro che vengano rappresentate come qualcosa di più che dei luoghi di interazione sociale tra pari, dove i ragazzi e le ragazze americane vivono per la prima volta lontano dalla famiglia e fanno le prime esperienze della loro vita da adulti. Di quello che succede in classe, nulla. Se capita per caso di vedere una lezione – come ricorda Roger Ebert nel suo libro sui cliché di Hollywood – dopo tre minuti immancabilmente suona la campanella. Per capire cosa c’è sotto la superficie della loro icona ideologica, bisogna andare a vederle dal vero. Come fa Frederick Wiseman nel suo At Berkley, presentato fuori concorso al Lido.
L’università, ci vuole dire Wiseman, è soprattutto un luogo di lavoro, dove si fa un lavoro molto specifico: quello della pratica del pensiero e della creazione del sapere. Sembra incredibile, ma vedere quella particolare materializzazione e condivisione del pensiero di cui un’università è capace, è ormai quasi impossibile. Stretta tra l’incudine dei luoghi comuni (gli impiegati statali fannulloni) e il martello della sua crisi e burocratizzazione (i tagli all’istruzione sono un trend comune a tutti i paesi occidentali) dell’università come luogo concreto non si sa né si vede più nulla.
Wiseman, continuando il suo quarantennale lavoro di studio sulla microfisica delle istituzioni della società, decide molto semplicemente di andare a vedere come funziona il campus di Berkeley, in tutte le sue sfaccettature: dalle appassionanti lezioni in classe (si tratta pur sempre di una delle migliori università del mondo), agli interminabili faculty meeting che devono far fronte ai continui tagli di budget; dai momenti di svago delle gare sportive o delle feste agli incontri di gruppi di studenti; dai lavoratori dello staff ai laboratori di scienze. In più di quattro ore di film vediamo il campus di Berkeley a tutti i livelli e latitudini.
Il risultato è davvero stupefacente, perché Wiseman non solo è capace di ridare dignità ai lavoratori pubblici dell’università di Berkeley, ma è anche in grado di portare al livello del visibile una delle attività più complesse e invisibili, quella del lavoro educativo e intellettuale. Ma perché invisibile? Una persona che pensa, che ricerca, che fa un esperimento, che parla ad un gruppo di studenti, o anche che fa un lavoro amministrativo – ovvero, la vita quotidiana di un’università – cinematograficamente non è molto efficace. Dal punto di vista dell’azione e dell’immagine non sembrerebbe accadere nulla. Wiseman tramite interventi di montaggio semplici, ma soprattutto facendoci armare di tanta pazienza, riesce nell’impresa di farci vedere la materializzazione visibile di questo processo.
In una delle prime scene, una lezione di scienze sociali, dove un gruppo di studenti discute della disuguaglianza dell’accesso alla rette universitarie, Wiseman ci dà un esempio di come un pensiero non nasca nell’isolamento della propria elitaria separazione ma nella pratica di una negoziazione logica e razionale di diversi punti di vista particolari, che producono un effetto di verità. Come anche in un’altra sequenza bellissima dove vediamo uno studente di dottorato sperimentare il proprio progetto di tesi – delle protesi per la locomozione di persone non deambulanti – su una persona inferma.
Perché l’università è proprio il contrario della “torre d’avorio” fuori dalla società che l’ideologia anti-intellettualistica dei nostri giorni vorrebbe farci credere che sia: è invece (quanto a meno a Berkeley, esempio di università sia pubblica sia di eccellenza) un luogo diversissimo, ricco, di enorme impatto sulla società e incredibilmente permeabile al mondo e alle sue differenze così come ai suoi conflitti. Per questo – ci dice Wiseman – l’attacco che subisce con i tagli da parte delle autorità dello stato della California è assolutamente irricevibile. C’è solo da starlo ad ascoltare.