In una località remota della Barbagia, antiche rivalità trovano nuova linfa nelle sfide tra disastrate squadre di calcio di Terza Categoria. Quella allenata da Benito Urgu, cieco, è la peggiore: solo il ritorno dall’Argentina di un povero emigrato asso del pallone ne cambia le sorti, portandola in vetta alla classifica. Contemporaneamente, un arbitro internazionale (Stefano Accorsi) smania per dirigere un'importante finale. Le due traiettorie, così distanti, finiranno per incrociarsi.
L’arbitro è un film (in bianco e nero) insolito, perché cerca di tenere insieme registri diversi e apparentemente inconciliabili. Ci sono – e sono prevalenti – la simpatia da cabaret (una Geppi Cucciari dai tempi giusti e una “vecchia gloria” come Benito Urgu) e il divismo de noantri (Stefano Accorsi che danza come in un musical sulle note di Voglio vivere così).
Ci sono però anche inserti drammatici (le faide secolari) e riferimenti a temi “alti” (la fede dell’arbitro, la partita di calcio vissuta come una cerimonia religiosa). E c’è infine il formalismo (lezioso) di inquadrature dalla composizione geometrica studiata. I tre registri interagiscono: le faide possono diventare occasione comica (il tormentone sull’omertà), così come le geometriche coreografie dell’arbitro.
Vedendolo, si è dunque costantemente indecisi tra diversi atteggiamenti.
L’impazienza per un film che, in buona misura, si appoggia su nomi noti a cui viene chiesto ciò che il pubblico conosce e si aspetta da loro (i modi bruschi della Cucciari, un nudo di spalle di Accorsi).
La curiosità per come in taluni momenti cerca, all’opposto, di inserire questi nomi in un contesto che, stando in bilico tra realtà e surrealtà, tra comico e dramma, si discosta dalle attese e sembra quasi voler disorientare il pubblico.
Il fastidio per le evidenti ambizioni, che sfociano, e si risolvono, nella caricatura e nello sketch di corto respiro. Che dire, in definitiva? Si ridacchia qua e là, ma il film appare un collage slegato di scenette.