Lungo il corso infinito della Storia, il privato di ogni individuo scompare, si dissolve, resiste, si riforma; la vita è interrotta dalla morte, l’ombra della morte è scalzata dalla luce persistente della vita. So Long, My Son di Wang Xiaoshuai, fluviale melodramma sullo sfondo dei mutamenti della Cina dalla metà degli anni 80 a oggi, costruisce il ritratto di un gruppo di famiglie ed ex operai di uno stabilimento industriale come un mosaico composto, più che da personaggi e situazioni, da frammenti di tempo e scorci di una società in evoluzione.
La tragica vicenda di Yaojun e Liyun, il cui figlio Xing muore giovanissimo in un incidente e anni dopo viene sostituito, in un’altra città lontana da quella precedente, da un altro figlio adottato, adolescente ribelle, è svelata con continui andirivieni temporali che abbracciano senza ordine cronologico tre momenti chiave della recente storia cinese: gli anni 80 della fuoriuscita dalla rivoluzione culturale e della pianificazione familiare; gli anni 90 dell’ingresso nell’economia di mercato; il XXI secolo della ricchezza capitalista.
La messinscena estremamente controllata con cui Wang Xiaoshuai osserva gli eventi del film (piani totali a racchiudere i personaggi e a registrare le loro reazioni; campi lunghi a mostrare con pudore la violenta esplosione delle emozioni; primi piani a cogliere incertezze e cedimenti…) detta il passo dolce di un romanzo storico che mette in relazione, senza mai confondere l’una con l’altro, il primo piano della dimensione privata e lo sfondo dei mutamenti sociali.
Diversamente da quanto accade nei film di Jia Zhangke, in cui la realtà procede a un ritmo sfasato rispetto a quello dei personaggi e tocca perciò al cinema trovare nei singoli frammenti la totalità del quadro, in So Long, My Son tempo privato e tempo collettivo procedono di pari passo. L’evolvere dei fatti storici (da cui naturalmente è esclusa la rivolta di piazza Tienanmen) genera la frammentazione dell’esperienza, su cui gravano lo scorrere malinconico degli anni e il peso incancellabile delle tragedie. Il racconto procede per episodi isolati e progressive rivelazioni, ma in ballo, più che la costruzione di un quadro complessivo, c’è la ricomposizione del vissuto di ogni personaggio e l’emergere di un sentimento collettivo che porti all’accettazione del dolore e delle responsabilità personali.
Il legame, tipico del melodramma, fra individuo e società in So Long, My Son trova una rappresentazione fin troppo didascalica eppure di straordinaria levità narrativa e autentica emozione. La cancellazione della memoria nella Cina contemporanea, così come il violento strappo dall’ideologia socialista all’economia di mercato, sono ricondotte in modo chiaro e via via sempre più straziante al tema persistente della colpa e del perdono. Yingming e Haiyan, colleghi in fabbrica e migliori amici di Yaojun e Liyun, il cui figlio Hao è responsabile della morte di Xing e la cui condotta dogmatica durante gli anni della pianificazione familiare causa inconsapevolmente un altro dramma, sono braccati dai fantasmi delle loro azioni, e trovano solo nel finale il modo di lasciarseli alle spalle. Gli stessi Yaojun e Liyun, che cercano nel figlio adottivo un sostituto del figlio morto, nonostante la fuga in un mondo nuovo, vivono bloccati in una dimensione inerme e senza evoluzione. Tocca al tempo narrativo, fluviale nel suo incedere, emendare dalla violenza inconsapevole della Storia e dare al film la sua anima dolente e compassionevole.
La distanza e la misura della regia di Wang Xiaoshuai esprimono dunque un sentimento che è soggettivo e insieme molteplice, con le tre ore di film che schiudono la verità agli occhi dello spettatore e seguono con sguardo malinconico e forse indulgente le tracce del progressivo allontanamento della Cina maoista dalle sue radici.