Scarface, 1983

Scarface

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Rise and fall, come da copione nei film di gangster. L'ascesa, iperbolica e brutale, prepara alla caduta, tragicamente patetica. Più si sale, più la fine è rovinosa, ed è una costante matematica. Tony Montana guarda al Tony Camonte di Howard Hawks e Ben Hecht per attualizzare il mito cinematografico e scandagliare il genere. In mezzo ci sono cinquant'anni di evoluzione del linguaggio e dello stile. E c'è anche il rise and fall di Hollywood, mica solo dei gangster. Ma nell'ora dell'edonismo reaganiano, Hollywood è risorta e anche De Palma ha la sua occasione con un grande budget e un divo come protagonista. Il dilemma non è soltanto dei villain: come fare a rimanere se stessi all'interno dell'universo in cui impera il Capitale? De Palma dà un deciso colpo all'entertainment e un altro, altrettanto vigoroso, alla riflessione metanarrativa. Come sempre. La Chicago degli anni Venti diventa la scintillante Miami anni Ottanta, il chiaroscuro di Lee Garmes si trasforma nei cromatismi sempre più intensi, man mano che ingrandisce l'ego maligno di Montana, fotografati da John Alonzo: De Palma descrive una parabola solipsistica regolata unicamente da quanti di disordine. Non condanna, perché non c'è una morale, non limita, perché la perversione non può essere arginata dal minor numero di sbirri in scena che si ricordi nella storia del cinema (forse ce n'erano di più nel capannone de Le iene). L'unico giudizio lo dà la macchina da presa, allontanandosi e creando il vuoto intorno a un personaggio megalomane, empio e incestuoso, con il volto sfatto e la postura ripiegata su se stessa. Quasi l'icona della progressiva putrefazione del potere criminale. La morte, alla fine, avviene più per obbligo di genere che per sanzione etica. Ed è una morte nutrita di cinema: oltre al World is Yours di Hawks campeggiante sul globo terrestre, il corpo di Montana a testa in giù nelle acque della piscina è la versione del suo personale Viale del tramonto.