Uomini – scienziati, piloti, padri, mariti – che giocano con razzi e astronavi. Scatole di latta, tenute insieme da semplici bulloni e alimentate da circuiti elettrici precari. Andare sulla luna? Fantascienza. Una follia per nulla romantica, e neppure prometeica, semplicemente assurda. «Per che cosa?», si chiedono un po’ tutti, senza rispondersi, «Ne vale la pena?». Tutti quei morti. Tutti quei soldi.
C’è un governo che vuole vincere la sfida con i sovietici, certamente. C’è Kennedy con la sua magnifica retorica della scoperta, il bisogno umano (possibilmente umanità americana) di spostare il limite un po’ più in là, di conoscere, sapere. Ma un uomo, quell’uomo, perché lo fa? Magari uno come Neil Armstrong, che ha perso una figlia per colpa di un tumore, e vive l’esperienza alla Nasa come un “nuovo inizio”. Sposato con una donna il cui compito, in teoria, sarebbe quello di aspettare e accompagnare, di accudire la casa in attesa dell’eroe, e che invece vede più lontano e più in profondità, vede il dispositivo, il “folle gioco”, e ciò che Neil non riesce a elaborare.
La questione allora diventa: quanto sei disposto ad andare lontano per avere una risposta? Quel buio là fuori, lo spazio vuoto, nero impenetrabile, senza fondo, non è molto diverso da quell’altro che ti porti dentro, dal nulla che ingoia le persone che hai amato, i sogni, le emozioni, le esperienze, le immagini. Precipitare in quel vuoto-nulla, volarci dentro, mantenendo il controllo, una parvenza di rotta (un protocollo), per conquistare la luna. Un grande passo per l’umanità, un passo gigantesco per un uomo, che non voleva vincere, arrivare, diventare famoso, aiutare l’umanità ad evolvere, ma semplicemente trovare un senso.
O almeno così ce lo presenta Damien Chazelle, appassionato cultore dell’analogico, che dopo aver riscoperto e rianimato il musical (la sua avanguardia estetica e il suo patrimonio di sogni) – mettendo in scena la distanza inevitabile da quel mondo e insieme la magia che può farlo rivivere – riporta un pezzo di storia (iconica, mitica, pop) alla sua sostanza fantascientifica, incrociandola con il melodramma. Ma fantascienza fatta di ferraglia, rumore, fisica newtoniana, non certo quantistica (nulla a che vedere con altre dimensioni kubrickiane o nolaniane), fondata sugli spazi chiusi, più che sull’aperto-vuoto cosmico, in cui il vuoto-aperto e il silenzio sono esaltati proprio dalla claustrofobia fragorosa della messinscena. Alla fine lo scafandro di Neil è un riflesso del vuoto, nero e Luna, cielo buio e terra arida, e solo allora ritrova il suo volto.
Un’avventura dello spirito, più che la ricostruzione di un’avventurosa pazzia. Con tutto il virtuosismo di cui Chazelle è capace (la prima sequenza del film ha la potenza del prologo di La La Land, o meglio, è la sua versione in solitaria, da camera-capsula spaziale) e che anche qui non è (solo) esibizione, ma il tentativo di dare fondo agli strumenti del cinema per vedere in modo nuovo ciò che pensavamo di aver già visto e capito una volta per tutte. In questo caso si parte da un materiale minimalista – dalle poche immagini sgranate dell’allunaggio che tutti conosciamo, dall’alone di mistero che circonda la personalità di Neil Armstrong – e dalla massima ovvietà di un evento fondamentale, per creare un’esperienza immersiva, capace sia di riportare alla realtà ciò che sembrava ormai fantasmatico sia di evocare l’invisibile che sta dietro la storia risaputa (e il perché quella storia ci riguarda tutti). Con tutta la retorica, le scelte a volte facili, i momenti di stanca e quelli in cui vorresti che l’espressione di Ryan Gosling non avesse quel retrogusto ironico (come un sorriso invisibile). Ma anche la commozione, la meraviglia, la forza incontestabile del cinema di un autore pop che si appresta a incassare qualche altro Oscar.